“Usufrutto e pegno di partecipazioni in società di persone”, in Vita notarile, 2, 2013

SOMMARIO: 1. Usufrutto di quota di società di persone. – 2. Pegno di partecipazione in società di persone. – 3. Affitto, misure cautelari ed esecutive sulla ‘quota’ di società personale. Cenni. – 3.1. (Segue): affitto di ‘quota’. – 3.2. (Segue): sequestri ed esecuzione sulla partecipazione sociale. – 4. Vendita di ‘quota’ con riserva della proprietà. Cenni.

  1. Usufrutto di quota di società di persone.

La dottrina si è prodigata in molteplici ricostruzioni riguardanti la natura della quota di società di persone al fine di assegnarle la consistenza necessaria e utile a consentire la costituzione del diritto reale di usufrutto sul rapporto sociale in titolarità del singolo socio e, come spesso accade per quelle “cose” prive di una consistenza materiale, anche la quota è stata dai più qualificata in termini di “bene” in forza di una sua considerazione del tutto parziale, in quanto fondata sul mero dato socio-economico[1].

In tal senso si è proposto di ravvisare nella partecipazione sociale[2]: un diritto di credito[3] (la parzialità di detta prospettiva trascura l’aspetto della doverosità che viene dunque ad essere declassato, insieme alle prerogative gestionali, a mera posizione accessoria); un (non meglio precisato) “bene” sui generis[4] (così confermando l’impressione di avallare quella che era, già in origine, una fallace petizione di principio); un fenomeno di reificazione della posizione contrattuale[5] (in tal modo ipostatizzando un’entità che risulta invece priva di materiale sostanza); un’universitas iuris[6] consistente in una pluralità di diritti e di obblighi ricondotti ad unità ad opera dello stesso ordinamento giuridico (così, con il merito di mettere in chiaro la natura complessa dell’entità de qua, si attua, con una dissimulata manovra di proiezione che conduce a riverberare e ripetere la natura dell’azienda sull’entità-quota, un indebito intervento di ortopedia giuridica senza perciò giungersi a cogliere la reale essenza del fenomeno di cui si tratta in quanto si fà di una sintesi terminologica un’entità oggettiva); una comproprietà del patrimonio sociale[7] (così richiamandosi i vincoli di destinazione ad uno scopo, nell’ottica di una tesi che, benché affascinante, deve tuttavia scontrarsi con una tanto corposa quanto diffusa corrente di pensiero cui ripugna l’idea di espungere dal novero dei soggetti di diritto le società personali); una qual sorta di status[8] (costruzione che, di fatto, comprova la mancanza di un’attuale relazione tra soggetto e bene per come classicamente intesa)[9].

Nonostante ad oggi, con una buona dose di realismo pratico, la diffusa attività empirica degli operatori del diritto porti (giocoforza) a dover considerare come ormai quasi del tutto superate le perplessità che in passato facevano discettare principalmente i teorici in merito alla possibilità giuridica di costituire un usufrutto per ogni tipo di partecipazione sociale, partendo dalla coda, si propende qui invece, recta via, per l’inammissibilità dell’operazione oggetto del presente lavoro[10].

Si ritiene che, de iure condito e senza per ciò solo incorrere nel ricorrente vizio concettualistico dell’Inversionsmethode (che, non a caso, è “il portato della separazione tra teoria e prassi[11]”), nelle società di persone la partecipazione sociale, a differenza di quanto avviene nelle società di capitali[12], non abbia natura di bene in senso giuridico in quanto essa non nasce come entità funzionalmente destinata alla circolazione giuridica[13] (basti a tal fine considerare il macchinoso regime successorio, nell’ampia accezione del termine, che la connota[14]: “intrasferibilità salvo consenso unanime[15]” – o, qualora previsto, maggioritario[16] – ad innegabile conferma dell’intensa natura personalistica[17] che caratterizza la partecipazione sociale negli enti a struttura non capitalistica[18])[19]. Anche a volersi per un istante assecondare la tesi della “quota” come “bene”: in punto di negoziabilità, la partecipazione in società di persone riesce a staccarsi dallo stesso soggetto titolare che nell’esprimerla la connota, così oggettivandosi, solo in presenza di un espresso patto contrattuale in forza del quale non si considera determinante, nell’àmbito della compagine di riferimento, la persona del socio medesimo (la negoziabilità non è quindi tratto coessenziale della quota stessa)[20]. Si sarebbe dinnanzi ad un “bene” dalla titolarità esclusiva del quale il singolo socio non sarebbe in grado affrancarsi, nemmeno mediante rinunzia (quand’anche ad un ipotetico “diritto sulla quota”), se non ottenendo il consenso di tutti gli altri soci o, al più, all’esito dei fenomeni del recesso (dal rapporto sociale quale tipica forma di liberazione da un vincolo negoziale che astringe il paciscente), della morte o dell’esclusione (dalla struttura organizzativa) nella ricorrenza dei rispettivi presupposti[21].

Parte della dottrina[22], con il tanto suggestivo quanto inconferente argomento in base al quale “nel più è ricompreso il meno”, ha ritenuto che, se si può alienare la quota, altrettanto si potrà dire per la produzione di un più contenuto effetto derivativo-costitutivo (fermo il rispetto dei limiti già previsti per il primo tipo di operazione, in termini di consenso unanime degli altri soci): anche a voler tacere d’altro, la validità di tale asserto è comunque condizionata dall’inesistenza di un meccanismo strutturalmente più semplice[23] attraverso il quale si riesca a realizzare la medesima sostanza economica espressa dagli interessi sottostanti alla fattispecie costitutiva del diritto di usufrutto sulla partecipazione in società personali, intendendosi a fortiori il surriferito asserto destituito di qualsiasi dignità argomentativa qualora il rinvenuto meccanismo alternativo rechi con sé una portata effettuale che giunga a garantire addirittura meglio (anche solo sotto il profilo metodologico-ricostruttivo) gli scopi degli stessi paciscenti pure in un’ottica generale di sistema (senza trascurare la valutazione dell’ulteriore dato, degno di favorevole accoglimento qualora riscontrato, di una minor interferenza dell’operazione nelle sfere giuridiche degli altri soci manente societate), così pure superandosi, in uno, quella netta cesura fra teoria e prassi che è invece dato registrare in subiecta materia ad un esame ‘topico’ della tesi dommatica attualmente egemone e qui avversata.

In verità la “quota” di appartenenza a una società di persone rappresenta (non certo un nomen consequentia rerum bensì) una mera sintesi verbale utilizzata per esprime quella che altro non è se non una complessiva posizione contrattuale la quale, per versarsi in àmbito societario, presenta un contenuto che è integrato, sul versante attivo, principalmente da diritti a contenuto gestionale ed economico-patrimoniale[24]. Detto simbolo linguistico vale quindi a fornire esclusivamente la rappresentazione della misura della partecipazione del socio al rapporto societario di cui quest’ultimo è parte integrante[25].

In base alle citate premesse[26]: qualora fosse seriamente possibile costituire un diritto d’usufrutto sulla quota, si legittimerebbe quello stesso fenomeno del “diritto sul diritto” che la dominante dottrina concordemente ricusa[27]. Non così per le società di capitali[28].

L’intento delle parti, che si vorrebbe perseguire attraverso la costituzione del diritto reale parziario sulla quota, è quello di attribuire al (preteso) usufruttuario, per un dato periodo di tempo, il godimento degli utili che gemmeranno dalla partecipazione sociale[29], le prerogative amministrative della quale rimarrebbero comunque ferme in capo al (preteso) nudo proprietario in ragione del perdurare della sua qualità di socio[30].

Si crede che analogo risultato possa essere realizzato per altra via, peraltro preferibile anche sotto il profilo eminentemente dogmatico.

Nella dimensione patrimoniale diversa è la posizione del socio, durante societate, nelle società di capitali rispetto a quella che lo stesso riveste nelle società di persone in relazione al percepimento degli utili di esercizio[31]: nelle prime (cfr. art. 2433 c.c.) egli versa in una situazione soggettiva di interesse legittimo alla distribuzione degli utili da deliberare con apposita decisione sociale (la qual’ultima volontà potrebbe anche legittimamente non formarsi nonostante l’effettiva produzione di un guadagno oggettivo), nelle seconde il socio vanta una posizione sostanziale che vive di una più intensa tutela (sub species iuris di aspettativa di diritto[32]) in quanto, con l’approvazione del rendiconto (dal quale emerga il reale conseguimento di un utile), sorge automaticamente in testa al socio il credito (diritto finale) alla relativa distribuzione pro parte (v. art. 2262 c.c.).

La natura dell’aspettativa giuridica non è più, ad oggi, ammantata dalle tradizionali resistenze concettuali opposte in passato dagli illustri giuristi che se ne sono occupati[33]: essa vanta la consistenza strutturale e funzionale di un diritto soggettivo in sé perfetto (c.d. “diritto al diritto[34]”) che, differenziandosi solo per contenuto da quelli tradizionalmente conosciuti (diritto personale e diritto reale) ed offendo tutela interinale ad ogni situazione di qualificata pendenza in attesa del perfezionamento della fattispecie a formazione successiva della cui giuridica rilevanza è essa stessa aspettativa espressione, ben può formare oggetto di autonomo atto di disposizione (arg. ex art. 1357 c.c.) anche a tempo determinato (mediante apposizione al negozio consensuale ad immediati effetti reali derivativo-traslativi di un termine finale di efficacia): gli utili che matureranno per tutto il tempo durante il quale il cessionario risulterà titolare dell’aspettativa, verranno acquistati a titolo originario nel patrimonio di quest’ultimo (al solo fine di rendere una rappresentazione meramente descrittiva dell’evoluzione dinamica del momento acquisitivo: in modo analogo a quanto accade nel fenomeno della fruttificazione)[35]. Siccome poi, per la dottrina più accreditata, l’aspettativa partecipa (anche sotto il profilo della patrimonialità o meno[36]) della natura del diritto che prepara (in quanto la prima è funzionalmente diretta a fornire un’omogenea tutela del secondo), l’atto di trasferimento dell’aspettativa giuridica (sfornita, nel caso di specie, di connotazioni a struttura potestativa), preparando quest’ultima il sorgere di un diritto di credito definitivo e finale, si ritiene dovrà formare oggetto di notifica alla società della cui partecipazione si tratta (ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 1264 e 1265[37] c.c.).

Essendo inoltre l’aspettativa legittima un diritto attuale, nemmeno si pongono i problemi che un’eventuale donazione di cosa futura[38] farebbe invece nascere in considerazione del divieto sancito dall’art. 771 c.c.

Impregiudicati, medio tempore, i diritti gestionali del cedente[39].

Sotto quest’ultimo aspetto: qualora si vertesse in ambito di usufrutto le prerogative amministrative dovrebbero invece coerentemente spettare all’usufruttuario ex art. 981 c.c., non potendosi sostenere una frammentazione contenutistica del “frutto” e dell’”uso” considerata l’ontologica unitarietà del diritto di ”usu-frutto” (quantomeno in forza di un elementare principio di inderogabilità della struttura dell’istituto per coerenza con la fattispecie – altrimenti si dovrebbe grottescamente poter costituire un finora sconosciuto diritto di solo “frutto”, dandosi così certamente la spallata decisiva all’oggi sempre più vacillante principio del numerus clausus dei diritti reali[40] -). Si dovrebbe poi conseguentemente giustificare anche l’intervenuta scissione tra rischio e gestione (ritenuta impraticabile dalla prevalente dottrina[41]), esponendosi il nudo proprietario ad una responsabilità personale (i.e.: illimitata) per decisioni non assunte da quest’ultimo né da altro socio alcuno.

Dunque anche la stessa necessitata separazione tra facoltà gestionali e patrimoniali inerenti alla partecipazione sociale comprova come non si possa versare in àmbito di usufrutto. Spettando in ogni caso i poteri di controllo sulla gestione al solo cedente in quanto socio.

Infine, sotto l’aspetto strutturale, si ritiene che tale negoziazione, non comportando una modifica della compagine sociale (diversamente da quanto avverrebbe in caso di costituzione di un diritto reale gravante la quota[42]), ma dando adito ad una vicenda con portata effettuale limitata meramente inter partes (trattandosi di un atto di disposizione attributivo delle ragioni patrimoniali funzionalmente connesse alla posizione di socio – immutata la pienezza della strutturale posizione di quest’ultimo nei riguardi della rimanente compagine sociale -), non richiederà il consenso degli altri associati (secondo il criterio dell’unanimità o, se previsto, della maggioranza) bastando all’uopo il concorso delle volontà dei due diretti interessati.

Si potrà all’uopo prevedere una soglia massima (quand’anche cadenzata per scaglioni in sequenza ascendente, discendente o, se del caso, anche mista) di utili percepibili per ciascun esercizio sociale.

Si riterrà poi quantomeno opportuno disciplinare nel corpo dell’atto eventuali vicende attinenti allo scioglimento del vincolo associativo particolare in titolarità del cedente (regolando gli effetti previsti dal 2° com. dell’art. 1000 c.c. – qui richiamabile fosse anche per il solo fatto che la disposizione, nonostante l’apparente tenore letterale, non disciplina un vero diritto d’usufrutto -)[43], avvertendosi vieppiù che recesso ed esclusione potranno darsi solo in riferimento al socio cedente[44].

Merita infine precisazione che, in caso di aumento di capitale a pagamento (che non pone i problemi dell’opzione e della conseguente prelazione sull’inoptato), il conferente dovrà essere il cedente (poiché socio sottoscrittore) e che, del conseguente vantaggio, non ne godrà il cessionario (nemmeno per il caso di aumento gratuito) in quanto (non socio e) non usufruttuario (cfr., invece, la possibilità di applicazione analogica dell’art. 983 c.c. per il caso in cui si ritenga ammissibile la costituzione del diritto di usufrutto sulla quota). Quanto ad eventuali conferimenti promessi ma non ancòra versati: la relativa doverosità rimarrà ad esclusivo carico ed appannaggio del socio cedente (o, nella qui avversata prospettiva, dell’asserito “nudo proprietario”).

Per quanto occorrer possa[45] risulta altresì chiarito, all’esito di quanto sopra esposto, come l’entità che in realtà possiede il carattere della patrimonialità è (non la quota in sé considerata ma) l’aspettativa di diritto in titolarità del socio quale situazione soggettiva suscettibile di valutazione economica nell’ottica della sua dimensione teleologico-finalistica: la “quota” appare dunque come “suscettibile di sfruttamento economico” proprio perché la stessa esprime, tra le altre, tale situazione giuridica patrimonialmente apprezzabile ed è precisamente quest’ultima ‘utilità’ che si presenta per sua stessa natura come ‘autonoma’ rispetto alla persona del socio.

  1. Pegno di partecipazione in società di persone

Intimamente connesso alla deducibilità o meno dell’entità sopra esaminata a peculiare oggetto del diritto d’usufrutto è il tema dell’ammissibilità del pegno di partecipazione sociale in società personale: si ritiene infatti che il problema non muti qui prospetticamente, quoad substantiam, l’angolo visuale di osservazione.

     Il profilo che qui si esamina riguarda quell’operazione attraverso la quale il socio garantisce, grazie alla produttività della partecipazione sociale, il diritto relativo in titolarità del creditore personale del primo.

In proposito si devono prendere le mosse da quella pronuncia della Suprema Corte per la quale la quota di S.n.c. non rappresenta un bene a sé stante suscettibile di formare oggetto di diritto e del quale si può disporre come di qualsiasi altro bene mobile idoneo a formare oggetto di proprietà e di possesso[46].

È stato a ragione sostenuto che l’operazione in esame, non a caso piuttosto infrequente nella prassi, non può ritenersi impedita per la sola circostanza che la quota sociale non rientra in alcuna delle categorie di beni elencate all’art. 2784 c.c. Si ripropone tuttavia la considerazione (già innanzi espressa in materia di “usufrutto di partecipazione”) in base alla quale gli operatori giuridici, quando richiesti, non esitano a predisporre la costituzione in pegno di quote di società personali: per alcuni[47] è necessario il consenso di tutti i soci (sulla falsariga del regime traslativo[48] di cui all’art. 2252 c.c.); per altri[49] si reputa sufficiente la sola notifica dell’atto costitutivo del diritto reale di garanzia (intercorso tra il socio-debitore ed il terzo-creditore pignoratizio) al legale rappresentante dell’ente (il tutto in sostanziale equiparazione del pegno di quota al pegno di crediti[50]).

Questa seconda teoria presenta tutti i connotati che rendono plausibile la ravvisabilità di un’ipotesi di pegno dell’aspettativa (societaria) giuridica (recante, quest’ultima, un’evidente conformazione personalistica[51]): in tal caso la suddetta notifica[52] produce l’effetto di vincolare la società a corrispondere al creditore pignoratizio gli utili periodici (in applicazione, quand’anche analogica, dell’art. 2802 c.c.)[53].

Tuttavia nel caso di specie emerge una particolare questione che invece non si ravvisa nella differente ipotesi dell’usufrutto di quota: il nodo è dato dalla naturale definitività dell’efficacia prodotta da un’eventuale vendita coattiva del diritto di aspettativa oggetto della garanzia reale[54] (a differenza dell’essenziale temporaneità degli effetti derivanti dalla costituzione del diritto d’usufrutto). Il rischio è qui quello (non tanto di legittimare surrettiziamente, in sede di vendita forzata ed in violazione dell’art. 2252 c.c., l’ingresso in società di terzi estranei in relazione agli acquirenti della “quota sociale”[55] quanto) di produrre una scissione in via definitiva e finale dell’unitario (qualora realmente tale) diritto di aspettativa dalla qualità di socio (alla quale ultima continueranno a ricollegarsi tutte le altre note prerogative strutturali) che resterà invece ferma in capo al debitore quand’anche il correlativo credito sia stato successivamente e per intero soddisfatto (il compratore non entra geneticamente nel contratto sociale come contraente ma subentra solo nel relativo rapporto preliminare di attesa rispetto all’acquisto degli utili[56]). Né, in un vano tentativo di far quadrare il cerchio, si potrebbe convincentemente costruire il “pegno di quota” come una fattispecie sui generis, ossia contenutisticamente limitata al solo potere del creditore di apprendere i frutti senza l’assistenza degli altrettanto essenziali ius distrahendi[57] e ius prelationis[58].

Nella dinamica delle vicende evolutive dell’aspettativa giuridica se, di regola, al verificarsi dell’effetto definitivo non residua più alcunché di quell’unico effetto preliminare, così non può dirsi per il caso di specie, trattandosi di una peculiare forma di aspettativa (sociale) giuridica con fonte in un contratto associativo lato sensu di durata[59]: la stessa situazione attiva di attesa d’acquisto periodico degli utili, astrattamente considerata, è da qualificarsi come posizione interinale di durata che si caratterizza per le potenzialità di “fruttificazioni” pecuniarie durevoli (quale specifica connotazione sottesa allo stesso art. 2270 c.c.)[60].

Oggetto della vendita coattiva sarà quindi sì il diritto di aspettativa[61], ma nei limiti temporali segnati da un numero di esercizi sociali presumibilmente sufficiente ad attuare il credito garantito e non ancòra soddisfatto al tempo dell’intervenuta alienazione per quanto sarà disposto a pagare in previsione l’acquirente a titolo di prezzo (arg. ex art. 2797, 3° com. c.c.: la vendita forzata è strettamente funzionalizzata all’esclusiva soddisfazione dell’interesse creditorio garantito).

Nel modo suddetto si propone così di far collimare l’istituto civilistico del pegno con i principi che informano la materia delle società personali.

Al caso di specie non risulta applicabile l’art. 2352 c.c. (dettato in ordine al pegno di azioni): i poteri di gestione[62] restano concentrati in testa al socio-debitore (come pure la facoltà di recedere), laddove i diritti di natura patrimoniale fanno capo al creditore pignoratizio.

Quale tutela del creditore pignoratizio a non veder diminuito il valore patrimoniale dell’aspettativa oggetto di pegno pare certamente operante, in un’ottica conservativa del credito garantito e nel contestuale rispetto dell’esigenza di una libera e subitanea azione di mercato dell’ente espressiva del favor societatis, la disposizione di cui all’art. 2261 c.c. (informazione sullo svolgimento degli affari sociali, consultazione dei documenti gestionali e diritto al rendiconto).

Opera il principio di indivisibilità del pegno (ex art. 2799 c.c.)[63].

Si reputa altresì applicabile l’art. 2803 c.c. (norma dettata in tema di pegno di crediti) per il caso di scioglimento della società o del singolo rapporto sociale; le disposizioni di cui agli artt. 2742 e 2743 c.c. possono essere considerate per l’ipotesi di riduzione del capitale sociale (cfr. artt. 2302, cpv. e 2306 c.c.) che importi una diminuzione, o il venir meno tout court, della garanzia reale.

Infine non si applica, al creditore pignoratizio come pure all’usufruttuario di “quota”, il divieto di concorrenza disposto dall’art. 2301 c.c.

  1. Affitto, misure cautelari ed esecutive sulla quota di società di persone. Cenni.

Talune ulteriori questioni, conclusivamente, meritano qui, benché solo in punta di penna, un rapido accenno. Esse attengono, in sintesi, alla possibilità, da parte di un socio, di concedere in affitto la partecipazione sociale in relativa titolarità nonché alla facoltà, da parte di un terzo qualificato, di assoggettare la partecipazione medesima alle cautele predisposte dall’ordinamento giuridico e, quindi, alla pignorabilità della ‘quota’ stessa. Di tali operazioni devono essere verificati, in una prima fase, la stessa ammissibilità e quindi, per l’ipotesi positiva, i conseguenti limiti.

3.1. (Segue): affitto di ‘quota’

Generalmente dubbia è reputata in dottrina la possibilità di addivenire ad un affitto della “partecipazione sociale” (ex art. 1615 c.c.)[64]. Trattasi di una operazione che, nella pratica degli affari, sovente è assistita da intenti simulatori, con precise finalità illecite e segnatamente di elusione fiscale[65].

In tal caso non si costituirebbe un vincolo reale sui beni, ma un vincolo a struttura obbligatoria derivante dallo stesso contratto di affitto (v. art. 2562 c.c.) ed avente come punto di riferimento esterno il diritto di aspettativa agli utili d’esercizio: in particolare si dà vita ad un meccanismo di relatio formale riferita ai risultati economici che detta situazione soggettiva attiva interinale è in grado periodicamente di assicurare all’avente diritto. Rimane peraltro impregiudicata la connotazione commutativa del contratto d’affitto in esame: in ogni rapporto di durata, difatti, l’alea[66] rileva esclusivamente sul piano economico poiché essa, in tal caso, incide solo ab extrinseco sui risultati dell’intervenuta negoziazione.

Anche se al di fuori dell’àmbito della ricostruzione qui sostenuta, i Giudici di legittimità ammettono invece, senza notevoli esitazioni, che un socio di una società di persone possa diventare affittuario di altra quota della medesima società[67]: si stipula un contratto consensuale ad effetti obbligatori in forza del quale un socio si vincola ad attribuire ad un altro socio (o anche ad un terzo estraneo all’ente) gli utili relativi ad uno o più esercizi sociali verso un dato corrispettivo. È comunque dato insuperabile che, nell’ipotesi di terzo affittuario, quest’ultimo non assuma la qualità di socio poiché soggetto non facente parte della compagine sociale. A naturale corollario: non è richiesto il consenso di tutti gli altri soci poiché il contratto di affitto produrrà effetti “interni” tra le sole parti contraenti, senza che residui spazio alcuno per l’opposizione degli altri membri della compagine societaria.

Del resto, per coerenza di sistema, non possono certamente essere dedotti ad oggetto di affitto i diritti amministrativi essenzialmente connessi alla posizione del socio.

3.2. (Segue): sequestri ed esecuzione sulla partecipazione sociale

Infine, in ordine alla applicabilità delle misure cautelari ed esecutive rispetto alla “quota” di società personale, dottrina e giurisprudenza si muovono, ormai tralatiziamente, sulla scorta di ondivaghe posizioni circa l’ammissibilità o meno del sequestro giudiziario (artt. 670 e ss., cod. di rito civ.) e di quello conservativo (artt. 2905 e 2906 c.c. nonché artt. 671 e ss., c.p.c.) della quota di società di persone.

In relazione al sequestro giudiziario (caso nel quale sarebbe controversa, tra due soggetti dei quali ciascuno si afferma socio in forza della medesima ‘quota’, la titolarità dei diritti sociali): per un’opinione (che si colloca evidentemente nell’area della tesi della partecipazione sociale ricostruita come bene mobile) è ammissibile quando si controverte in tema di proprietà della quota sociale[68]; invece la dottrina prevalente e parte della giurisprudenza di merito (che si assestano nell’ottica della quota sociale come complessa posizione contrattuale[69]) depongono per la negativa[70].

È altresì ammissibile, benché istituto di scarsa diffusione pratica, il sequestro convenzionale della partecipazione sociale, a norma degli artt. 1798 e ss., c.c.: tale contratto, quale mezzo preventivo di autotutela privata in funzione cautelare, è ipotizzabile qualora si ravvisi la realità (non quale elemento formale della fattispecie bensì) nel fatto dell’affidamento al sequestratario della disponibilità esclusiva ad interim della gestione, funzionale all’esercizio delle prerogative sociali.

Pure in materia di sequestro conservativo i surriferiti imbarazzi che agitano le menti degli operatori del diritto non accennano ad allentarsi. Infatti mentre per alcuni l’operazione è inconfigurabile[71] (ivi compreso il sequestro della quota di liquidazione in quanto mera spes, quale credito incerto ed eventuale, poiché entità non vincolabile al soddisfacimento di un credito), per altri la tutela viene ammessa solo sulla quota di liquidazione spettante al socio[72]. Invero, in chi scrive, pare deducibile ad oggetto di sequestro conservativo tanto l’aspettativa di diritto agli utili sociali (nel rispetto, ma pare ovvio, di quando disposto dall’art. 2303 c.c.) quanto il diritto alla quota di liquidazione (poiché derivante da un rapporto giuridico già esistente al tempo della richiesta tutela).

Infine nell’ottica pubblicistica del sequestro penale, giudizialmente disposto a titolo preventivo (ex art. 321, c.p.p.) o conservativo (ex art. 316, c.p.p.) a carico del soggetto indagato (titolare del rapporto sociale)[73], la giurisprudenza tende, con massima ripetuta, a ritenerne l’ammissibilità[74] – seppur nel ricorso di specifici presupposti[75] -.

Quanto all’espropriabilità della “quota” in esito all’esecuzione attuata nella forma del pignoramento presso terzi[76] (quale atto notificato tanto al debitore quanto al terzo ed iscritto nel competente registro delle imprese[77]): parte degli studiosi[78] ne ammette la praticabilità[79]. Altri la negano[80], di fatto giungendosi così a limitare il diritto del creditore particolare del socio (con potenziali riflessi di dubbia legittimità anche sull’art. 2740 c.c.), allo scopo di evitare ingerenze di terzi ab extrinseco nella vita societaria in danno dei soci estranei all’obbligazione inadempiuta[81].

In realtà, rinviandosi qui alle osservazioni espresse in tema di pegno di “quota”, in chi scrive sembra che la risposta debba essere positiva nel senso che il su richiamato creditore possa far valere le rispettive ragioni sull’aspettativa di diritto in relazione tanto agli utili che ne gemmeranno quanto all’ulteriore entità giuridico-formale integrata dalla qualificata posizione di attesa per come riferita alla liquidazione della quota sociale[82] (si ritengono altresì applicabili, in ispecie, gli artt. 2914, n. 2 e 2915, 1° com., u.p. c.c.)[83].

  1. Vendita di ‘quota’ societaria con riserva della proprietà. Cenni

Viene infine ipotizzata una vendita della partecipazione sociale assistita da patto di riservato dominio, ex artt. 1523, ss., c.c.

A prescindere dalle diverse ricostruzioni dogmatiche che gli studiosi del diritto civile hanno elaborato nell’intento di inquadrare sistematicamente l’istituto della riserva di proprietà (e segnatamente in termini di fenomeno condizionale, di vendita obbligatoria, di aspettativa giuridica a carattere reale o di negozio tipicamente idoneo a costituire una forma di garanzia reale in favore dell’alienante), l’operazione rientra tra quelle che necessitano il rispetto dell’art. 2252, c.c. Infatti nella ipotesi di vendita di ‘quota’ con patto di riservato dominio si realizza una cessione del contratto associativo con riserva di proprietà, dietro consenso degli altri membri che compongono la società personale di cui è parte il venditore stesso, tanto implicando che il socio alienante conserva la titolarità della posizione associativa fino al pagamento, da parte dell’acquirente, dell’ultima rata di prezzo.

Del resto è ben possibile che i contraenti, nel porre in essere la compravendita, pur sempre nell’àmbito degli artt. 1523, ss., c.c., intendano dedurre ad oggetto del negozio le sole aspettative di diritto agli utili gemmanti dal sottostante contratto associativo, essendo in tal’ultimo caso funzionalmente sufficiente il solo consenso legittimamente manifestato dai medesimi paciscenti a tanto interessati.

Ordunque, nell’ipotesi da ultima considerata, solo dal concreto contenuto della pattuizione sarà possibile stabilire se le parti abbiano inteso dar vita ad una cessione del contratto o ad un trasferimento dell’aspettativa, giuridicamente tutelata, agli utili societari.

Avv. Luca Crotti di Milano

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[1] Si veda, stante l’asserita natura della quota partecipativa in termini di bene mobile immateriale (ai sensi dell’art. 812 c.c.) come tale assimilabile ai beni mobili ordinari e suscettibile di formare oggetto di diritto di proprietà e di diritti reali limitati, Trib. Trento 17 gennaio 1997, in Giur. comm., 1999, II, 188, con nota di G. Pescatore nonché SC 2.2.2009 n. 2569 (C.E.D., C. Cass.). Si rivela pertinente sotto tale aspetto l’osservazione per cui è <<evidente lo sforzo interpretativo compiuto […] per rinvenire nell’ordinamento una giustificazione per l’attribuzione della definizione di “bene” alle quote […] ed il risultato appare ispirato più da esigenze pratiche e di opportunità “politica” che non da rigore sistematico>> (v., per tutti, C. Trinchillo, Note sullo scioglimento della comunione legale e sulla “comunione de residuo”, in Scritti giuridici, Napoli, 2006, 201).

È stato altresì ritenuto ammissibile la costituzione di un usufrutto successivo sulla quota di società personale, in quanto fattispecie compatibile con la disciplina posta dall’art. 2284 c.c.: in tale caso, infatti, ben sarebbe configurabile il diritto alla liquidazione della quota nonostante quest’ultima risulti gravata dall’usufrutto in favore del donante e, successivamente, in favore di un terzo soggetto (v. D. Boggiali, nel Settore studi-pubblicazione quesiti CNN, quesito n. 91-2006/I), il tutto quantomeno per il caso di morte del nudo proprietario (non rivestendo l’usufruttuario la qualità di socio; in tal senso: v. Trib. Parma, 7 febbraio 1998, in Giur. mer., 1999, 530, con nota di G. Fauceglia). Per il caso, invece, di morte del donante: l’usufrutto in favore di quest’ultimo si estingue e sorge quello in favore del terzo la riserva prevista dall’art. 796 c.c. (si rinvia alle ricostruzioni offerte da L.A. Sgroi, Brevi note in tema di donazione dell’usufrutto da parte del nudo proprietario, in Vita not., 1991, 1170 e da C. Trinchillo, Riflessioni in merito all’art. 796 e dintorni, in Riv. not., 2003, 912).

Sulla circostanza per cui la quota non è un bene, nemmeno immateriale, cfr.: G.F. Campobasso, Diritto commerciale, II, Diritto delle società, VIa ed. a cura di M. Campobasso, Torino, 2006, 106, nota n. 94.

Invero S. Pugliatti sottolinea la assoluta autonomia e la netta differenza che intercorre tra i concetti assunti dalla scienza economica e quelli elaborati dalla scienza giuridica (id., Beni e cose in senso giuridico, Milano, 1962, 12, 13, 15, 61, 68 e 69).

     In critica al qui riferito inquadramento dell’entità “quota” basti osservare come la res immaterialis rappresenta il risultato di un processo creativo (c.d. corpus mysticum – idea -) che si estrinseca in un bene materiale (c.d. corpus mechanicum); per di più gli stessi beni immateriali non solo costituiscono una specifica categoria a numerus clausus ma anche formano tipicamente oggetto di un diritto assoluto (cfr., per tutti, F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2011, 201).

[2] Altra connessa problematica, oggetto di accesi ed invero mai sopiti dibattiti, è quella relativa alla frazionabilità o meno della quota di società personali (questione, quest’ultima, avente una diretta rifluenza anche nell’area delle vicende mortis causa: si discute se gli eredi del socio defunto subentrino nella quota come gruppo complessivamente considerato o se invece si verifichi un’automatica suddivisione della quota stessa tra tutti gli eredi – opzione, quest’ultima, che varrebbe a rendere più difficoltoso il raggiungimento dell’unanimità laddove richiesta e che risulterebbe comunque in grado di modificare le originarie maggioranze nei casi di voto per teste -).

[3] Cfr. G. Venezian, Dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione, II, Torino, 1913, 454 ss.; F. Ferrara sr., Usufrutto di crediti nel diritto civile italiano, in Scritti giuridici, II, Milano, 1954, 230 ss.; G. Stolfi, Una questione sull’art. 670 c.p.c., in Banca borsa tit. cred., 1954, I, 844; A. Candian, Il diritto del socio nelle società c.d. di capitali. Natura giuridica, in Dir. fall., 1961, 801.

[4] A. Asquini, Usufrutto di quote sociali e di azioni, in Riv. dir. comm., 1947, I, 12.

[5] G. Cottino, Diritto commerciale, I, Padova, 1976, 801. B. Biondi (Osservazioni circa la natura giuridica della quota di società a responsabilità limitata, in Banca borsa tit. cred., I, 1957, 543, ss.) costruisce la quota in termini di bene patrimoniale quale possibile oggetto di diritto (non di proprietà ma, comunque, assoluto in quanto assistito da una tutela erga omnes).

Tuttavia, allo stato attuale di dottrina e giurisprudenza, è oggi da ritenersi pacifico come il requisito dell’assolutezza assiste non solo le posizioni creditorie in senso proprio ma anche le situazioni soggettive attive interinali (ossia: di aspettativa giuridica).

     [6] Cfr. G. Romano-Pavoni, In tema di azioni e quote di società: vendita di aliud pro alio ?, in B.B.T.C., 1953, II, 153 (nell’evidente tentativo di vincere quello che deve a ragione reputarsi l’insormontabile ostacolo di ravvisare nella quota di società di persone una nuova oggettivata entità strutturalmente autonoma).

[7] G. Ferri, Delle società, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1968, 4, ss.

[8] Cfr. V. Buonocore, Le situazioni soggettive dell’azionista, Napoli, 1960, 100, ss. e 216, ss. (che discorre, più propriamente, in termini di qualità giuridica – nello stesso senso v. F. Di Sabato, Diritto delle società, Milano, 2005, 101 e 102 -).

Per la dottrina più accreditata (il richiamo è a P. Perlingieri e P. Femia, Nozioni introduttive e principi fondamentali del diritto civile, Napoli, 2004, 125 e ss.): lo status (quale situazione soggettiva assoluta che esprime la posizione di un individuo in una comunità organizzata) si fonda sul fatto di una comunione di vita (quale insurrogabile elemento materiale) e mai può essere costituito per contratto o negozio giuridico (offrendo così gli aa. una nozione restrittiva dell’istituto la quale consente di circoscriverlo alle sole ipotesi tramandateci dalla storia: status personae, familiae e civitatis – laddove lo status libertatis non è oggi più rintracciabile nelle comunità civilmente organizzate -). Infatti ogni qual volta il gruppo viene costituito per contratto è del tutto inutile cercare di rinvenire in capo ai singoli componenti l’esistenza di uno status in quanto la conseguente tutela giuridica è loro garantita dalla stessa disciplina dell’esecuzione del contratto (id est: dal negozio nascono rapporti giuridici e non status; ogni violazione è dunque violazione del contratto e non di un preteso status). La circostanza poi che esistano negozi tipicamente costitutivi di status non muta i termini della questione: è vero che il matrimonio ed il riconoscimento di figlio naturale hanno efficacia costitutiva di altrettanti differenti status, ma questi ultimi intanto possono sorgere in quanto tali atti si innestano in una comunione organizzata di vita (e non di attività economica).

[9] Rari, sull’argomento oggetto del presente scritto, i contributi della giurisprudenza e, quanto a quelli conosciuti, da ritenersi comunque non condivisibili (v. Cass. 30 gennaio 1997, n. 934, in tema di sequestro; cfr. Trib. Trento 14 gennaio 1997 per l’ammissibilità di usufrutto di quota di società personale mutuando l’argomentazione, ma – a parer dello scrivente – erroneamente, da un orientamento sostanzialmente unitario della Corte di legittimità maturato nel differente ambito della S.r.l. – v. Cass. nn. 7409/1986, 2539/1990, 7614/1996 -).

[10] Non deve sfuggire il contenuto dello Studio n. 900 del CNN (approvato il 21 maggio 1994) ove, in merito alla costituibilità del diritto d’usufrutto (con riserva della nuda proprietà) sulla quota di un socio accomandatario di una S.a.s., è dato leggere che: <<[Per risolvere il problema in oggetto non si deve] lasciarsi suggestionare da formule concettuali come quelle di ”nudo proprietario” e “usufruttuario” le quali comunque […] solo approssimativamente potrebbero valere nel nostro contesto>> [lo studio si mostra favorevole alla possibilità che l’accomandatario doni l’usufrutto sulla propria quota con riserva della nuda, non perdendo egli per ciò stesso la qualifica di socio accomandatario (e, quindi, conservando i relativi poteri di amministrazione)].

In sostanza, in ossequio all’esigenza di raggiungere e mantenere una pretesa coerenza interna nel sistema di diritto societario, si giunge in fatto a snaturare la forma iuris di cui tipicamente si riveste il diritto di usufrutto per come modellato nella sua configurazione tradizionale.

[11] V. L.. Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Jus, 1976, 21 e 22.

[12] Non esclusa la S.r.l. (cfr. artt. 2469, co. 1, c.c. e 2471-bis, c.c.) pur quando a struttura operativa più snella, mutuata da quella delle società di persone.

[13] Cfr. D. Messinetti, Oggettività giuridica delle cose incorporali, Milano, 1970, 307 e ss.

Si legge, anche nella migliore manualistica, che la natura di un’entità giuridica è desumibile dalla sua circolabilità: Gazzoni, cit., 198.

Il criterio in esame non è invece adottabile per le cose intese in senso naturalistico in quanto esse non possono essere individuate in considerazione del trattamento giuridico che loro riserva il legislatore: M. Allara, Dei beni, Milano, 1984, 12 e 13.

Per un’applicazione pratica di quanto evidenziato in narrativa v. B. Carpino (Il pagamento con surrogazione, in Riv. dir. civ., 1971, 733) che, nel distinguere gli istituti della cessione del credito (aa. 1260 e ss. c.c.) e della surrogazione per pagamento (aa. 1201 e s. c.c.), sottolinea come mentre nel primo il credito, venendo dedotto ad oggetto di un trasferimento (e quindi di un negozio giuridico), “figura più come bene che come diritto”, nel secondo il credito, risultando unicamente dedotto ad oggetto di un effetto successorio legalmente sancito e non risultando accompagnato da effetto traslativo alcuno (v. R. Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, 99), “figura esclusivamente come diritto”.

Una recente teorica di matrice comparatistica (A. Gambaro, I beni, Tratt. dir. civ. e comm. Cicu-Messineo, 2012, 84 nonché 98 e ss.) riconosce dignità di bene giuridico a qualsiasi utilità presente che consenta indistintamente ai cives in genere una (legittima) accessibilità diretta. Tal’ultima teoria:

  1. ricomprende nel proposto concetto di bene, sulla base di una opinabile scelta ‘politica’, anche le cd. res communis omnium (per es.: l’aria atmosferica) che (per lo meno ad oggi) non implicano la propedeutica soluzione di alcun conflitto intersoggettivo (essendo pertanto entità che, per il relativo sfruttamento, non richiedono fisiologicamente l’intervento del diritto soggettivo);
  2. fonda la ricostruzione, incentrata sulla distinzione dei concetti di appartenenza e di spettanza dell’utilità finale, sulla teoria soggettiva del contenuto dell’obbligazione (cfr., ex multis, M. Giorgianni, L’obbligazione, Milano, 1968, 63; ma contra: L. Mengoni, Obbligazioni <<di risultato>> e obbligazioni <<di mezzi>>, in dir. comm., 1954, 189; R. Cicala, Concetto di divisibilità e di indivisibilità dell’obbligazione, Napoli, 1978, 62, ss.; S. Pugliatti, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Napoli, 1935, 129 nonché E. Betti, Il concetto di obbligazione costruito dal punto di vista dell’azione, Pavia, 1920, 145 e ss.; cfr. inoltre, in proposito, R. Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano, 1936, 44, ss.);
  • assegna rilevanza giuridica a entità ritenute meritevoli di tutela pur quando oggetto di interessi meramente diffusi (benché l’a. tenda poi a ricondurli “convenientemente” nell’area degli interessi collettivi, ossia di quelli riconducibili a un centro di imputazione per lo meno determinabile);
  1. ‘tratta’ dei beni futuri come entità puramente logica (in quanto, se ne evince, relativi alla differente dimensione rappresentativa propria della teoria dell’oggetto del contratto rilevante ai fini della validità strutturale di quest’ultimo inteso come fattispecie) senza tuttavia affrontare il caso, certamente non marginale, dei frutti nati e maturi (suscettibili, dunque, di offrire con certezza l’utilità che li riguarda) ma non ancòra separati dalla cosa madre laddove si è in presenza di una individuata realtà fenomenica esistente in rerum natura benché non ancòra dotata di (piena) autonomia giuridica rispetto alla cosa madre (C. Maiorca, La cosa in senso giuridico, Napoli, 1937, 246 e ss.; P. Perlingieri, I negozi sui beni futuri, Napoli, 1962, 194-199, 192 e 258 nonché Bigliazzi Geri, L’usufrutto, Milano, 1977, 196 e 197).

Del resto anche aderendosi (con la necessaria prudenza e non in modo incontrollato) a una ragionevole concezione relativistica dell’entità “bene in senso giuridico”, certamente difficoltà del tutto maggiori incontra qualsiasi tentativo che impone, per tale via, di rimodellare, di fatto, l’istituto dell’usufrutto. In dottrina è stato in tal senso affermato che “l’indagine sull’oggetto del diritto di usufrutto si deve svolgere secondo” il criterio fondamentale consistente nello “stabilire l’attuabilità dell’usufrutto in ordine alla natura del bene” che, di volta in volta, viene in considerazione: D. Barbero, L’usufrutto e i diritti affini, Milano, 1952, 106. In proposito si vedano altresì M. Giorgianni, Contributo alla teoria dei diritti di godimento su cosa altrui, Milano, 1940, 25, ss. e il più recente contributo di L. Bigliazzi Geri, U. Breccia, F.D. Busnelli, U. Natoli, Diritti reali, Torino, 1998, 209. Difatti, in materia d’impresa, i concetti civilistici (tra i quali, di sicuro, quello di usufrutto) sono strumenti che, talvolta, si rivelano inidonei ad assicurare una esauriente applicazione della normativa di diritto commerciale in ragione delle particolari esigenze che quest’ultima si prefigge di realizzare.

[14] In tema di intrasmissibilità mortis causa della partecipazione in quanto tale (per gli effetti di cui all’art. 2284 c.c.), v. Trib.

Biella 27 novembre 2007.

     [15] Cfr. M. Ghidini, Le società personali, Padova, 1972, 648, nonché V. Buonocore, G. Castellano, R. Costi, in Casi e materiali di diritto commerciale, Società di persone, I, Milano, 1978, 485. V. altresì Cass. n. 1663/1978. Per la partecipazione del socio accomandante (di una S.a.s.) v. G. Oppo, L’identificazione del tipo <<società di persone>>, in Riv. dir. civ., 1988, I, 619 (l’a. parla di semplice attenuazione del regime naturale dell’intrasferibilità, cfr. art. 2322, cpv. c.c., in considerazione dalla naturale carenza di poteri gestori in testa all’accomandante come sancito dall’art. 2320, co. 1, c.c.).

Nelle società di capitali, invece, l’analogo risultato di paralizzare il rischio del mutamento della compagine sociale è assicurato all’autonomia statutaria attraverso l’apposita utilizzazione, tra gli altri, dello strumento della prelazione: SC, n. 10121/2007.

     [16] La previsione ‘statutaria’ di una circolabilità della quota sociale previa decisione a maggioranza sta ad indicare, con il destrutturare (semplificandolo) lo schema di cui all’art. 1406 c.c., che l’ordinamento giuridico consente all’autonomia del gruppo dei soci di considerare la partecipazione sociale (non certo in termini di ‘bene’ ma), astraendola dalla sua stessa immanente essenza negoziale (qualora questo connotato si riveli in concreto inefficiente per le dinamiche d’impresa), in prevalenti (e pur sempre naturali) termini aziendalistici di “pezzo dell’organizzazione” (ben potendosi utilizzare anche nella presente sedes materiae detta nomenclatura, proposta da P. Ferro Luzzi, La nozione di scissione, Giur. comm., 1991, I, 1065 ss.).

[17] Per ciò solo non ponendosi in discussione le conclusioni alle quali è pervenuta la moderna dottrina in merito alla perdita di rilevanza dell’intuitus personae (nonché in relazione alla svalutazione del fenomeno della “fiducia” e del requisito della personalità della prestazione) nell’àmbito delle relazioni privatistiche in ragione della sempre più incalzante considerazione dei rapporti giuridici in termini strettamente patrimonialistici – nell’ottica di quel crescente fenomeno che tende a degradare il soggetto a mero “portatore” di patrimonio (c.d. spersonalizzazione del rapporto giuridico) per la normale inerenza dei rapporti al complesso patrimoniale piuttosto che al soggetto – (cfr. il lavoro di A. Galasso, La rilevanza della persona nei rapporti privati, Napoli, 1974). Tale tendenza opera ovviamente anche nell’àmbito dei soggetti entificati: nella disciplina delle eterogenee vicende afferenti l’impresa il primario scopo perseguito dall’ordinamento giuridico è quello di assicurare continuità all’organismo produttivo oggettivamente considerato (adombrandosi così i classici aspetti relativi ai profili inerenti al fenomeno dell’imputazione soggettiva in punto di titolarità – il tutto anche in superamento delle tesi istituzionalistiche dell’impresa ed in favore di quelle oggettive di matrice economico/aziendalistica -).

[18] Il regime circolatorio dei beni è, di regola, innegabile indice rilevatore della natura giuridica degli stessi e costituisce comunque elemento imprescindibile del momento qualificatorio dell’entità sottoposta al prudente vaglio dell’operatore giuridico quando quest’ultimo agisce nelle vesti di ermeneuta.

[19] Mentre alle aprioristiche tesi, qui non condivise, che elevano al rango di ‘bene’ la partecipazione sociale al fine di ritenere applicabile la disciplina dell’usufrutto si può comodamente opporre che esse interpretano (e, in uno, qualificano) una data operazione economica unicamente sulla base di un concetto dogmatico frutto di elaborazione puramente teorica (il riferimento è alla natura delle partecipazioni in società personali) – il che conduce, anche a voler tacere d’altro, a tanto evidenti quanto perigliose inversioni logiche -, lo stesso non può dirsi per le conclusioni a cui si addiviene nel presente lavoro (valide anche nell’ipotesi in cui si volesse continuare ad inquadrare la partecipazione in società personale nella categoria dei beni giuridici): l’inquadramento dell’affare rappresentato dalla concessione dello sfruttamento delle utilità derivanti dalla conclusione di un contratto associativo ‘personalistico’ risulta compiuto, al di fuori di qualsiasi oltranzistico eccesso costruttivo, in ragione dei soli dati positivi che il legislatore ha reso disponibili all’interprete; solo in considerazione degli interessi che i contraenti intendono perseguire in concreto nell’avvalersi del diritto (oggettivo) costituito, si trae lo strumento giuridico che, preferibile ad ogni altro per minor criticità applicativa e maggior fluidità operativa, riesce meglio a comporre e coniugare le dimensioni pratiche poste a confronto.

     [20] Né può comunque essere la volontà privata a qualificare la struttura (e quindi la natura) di un data entità meritevole di giuridica rilevanza (contra A. Pino, Contributo alla teoria giuridica dei beni, in R.T.D.P.C., 1948, 838: l’a. fà della qualificazione di un bene una quaestio voluntatis), essendo quest’ultimo aspetto di esclusivo appannaggio della legge in considerazione della natura dell’oggetto e del titolo: così F. De Martino, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, artt. 957-1026, Bologna-Roma, 1978, 246-247. “È il legislatore e – sulla sua scia – l’interprete a stabilire quali entità possano, oppure non possano, essere qualificate come beni“: V. Zeno-Zencovich, Cosa, in Dig. disc. priv., sez. civile, IV, Torino, 2004, 448. “La natura giuridica delle cose non dipende dall’autonomia privata […] bensì da processi di qualificazione normativa formale che è compito dell’interprete individuare“: M. Costantino, I beni in generale, in Trattato di dir. priv., diretto da P. Rescigno, VII*, Torino, 2005, 15. Per M. Ghiron, infine, “[…] nessun soggetto e nessun oggetto di diritti può riconoscersi in un ordinamento giuridico, per virtù di sola interpretazione, senza l’ausilio di una volontà legislativa”.

     Contrario tuttavia pare il trend assunto, nell’era post-industriale, dallo spirito comunitario che, sovreccitato da ansie di sistemazioni positive di natura eminentemente economico-mercantili, rende ‘bene’ giuridico ciò che pare meglio inquadrabile invece come un valore del mondo giuridico quand’anche dedotto ad oggetto d’obbligazione (si pensi alle generiche doverosità informative): il bene giuridico risulta così creato dalla stessa autonomia negoziale (che non si limita più solo a gestirlo ma, strutturandolo, addirittura lo forma) al punto che il ‘contratto’ diviene esso stesso, a sua volta, un ‘bene’ (giungendo in tal modo, l’economia, ad assumere un potere deformante poiché si consentirebbe all’autonomia privata di creare ‘cose’, quand’anche immateriali, da semplici ‘bisogni’). Sul tema cfr. A. Jannarelli, Beni, interessi, valori, in Tratt. dir. priv. europeo, a cura di N. Lipari, II, I soggetti (seconda parte), beni, interessi, valori, Padova, 2003, 307 e 310. In tal modo risulta evidente come il rischio è quello di giungere nella sostanza a dissolvere la netta identità della categoria giuridica dei beni, quand’anche immateriali. Quindi, in un chiaro rigurgito della politica del laissez-faire (storicamente utile ad eliminare i vincoli che opprimevano l’iniziativa economica individuale ma non certo capace anche di ordinare la società industriale sbocciata all’esito di quanto appena precisato), nel rapporto tra diritto ed economia il primo si snatura, nell’usare ora un’espressone del compianto Prof. L. Mengoni, da “forma formante” a “forma formata” (laddove l’ottica sottesa è sempre quella del diritto soggettivo inteso quale “potere della volontà”). Con l’aderirsi ad una concezione istituzionalistica del diritto si deve ritenere che esso “non è mera forma esteriore del comportamento economico” risultando invece essere “componente strutturale dell’attività economica”.

     Evidenzia (benché in un settore giuridico affatto differente da quello qui in esame) la moderna tenenza alla dilatazione esponenziale del concetto di “bene”: D. La Rocca, Nuovi beni e nuovi diritti. Sull’attualità della teoria dell’oggetto giuridico, in Studi in onore di D. Messinetti, Napoli, 2008, 511 e 514 (un allargamento senza limiti del concetto di bene in senso giuridico importa uno “slittamento semantico” che può “trasformarne la stessa costruzione”).

     [21] In realtà la legge (in sede di modificazioni soggettive del contratto sociale), nel prevedere all’art. 2252, c.c. l’attitudine della quota a soggiacere alla potenziale modalità di godimento indiretto attuata mediante disposizione, non intende inquadrare la prima nella categoria dei beni giuridici ma, al più (con il sancire la natura contrattuale dell’entità-quota – considerata la necessaria unanimità per il prodursi del relativo effetto successorio -), intende derogare all’art. 1406 c.c. nella parte in cui quest’ultima norma non consente la circolazione del “rapporto” (recte: dei diritti e degli obblighi contrattuali ritenuti dalla dottrina prevalente pur sempre corrispettivi) nel caso, in pratica sempre ricorrente, in cui lo stesso abbia già avuto parziale esecuzione (quale dato supportato dal disposto di cui all’art. 2269 c.c. il quale, benché norma ritenuta dispositiva, sta a dimostrare come la cessione interessa anche il periodo d’intervenuta esecuzione – diversamente da quanto avviene per la cessione dei contratti “di durata” di diritto civile che risulta invece altrettanto coerentemente efficace per il solo periodo non ancòra eseguito: Cass. n. 3648/1956 -).

[22] V. A. Ruggeri Cannata, Sull’ammissibilità dell’usufrutto di quota di società personali, in Vita not., 1988, 857.

[23] Tanto in ossequio al principio di economia dei mezzi giuridici, quanto per la conseguente impossibilità di rinvenire una giustificazione a quella che risulterebbe quindi essere un’arbitraria complicanza di struttura non sorretta da una qualità di fondamenta tale da risultare meritevole di giuridicizzazione.

[24] Ciò porta a ritenere, sotto altra luce, che l’art. 812 c.c. non è disposizione risolutiva della vicenda che qui si esamina in quanto la norma (ad evidente completamento dell’art. 810 c.c.) individua (attraverso la summa rerum divisio tra beni mobili ed immobili) i beni attraverso gli elementi di fatto che li caratterizzano sul piano pregiuridico per essere questi ultimi dotati di una struttura fisica materialmente tangibile (al punto che quando si è trattato di considerare un’entità distinta e meno facilmente percepibile dall’uomo – poiché ‘solo’ corporale – è stato necessario l’espresso intervento del legislatore, v. art. 814 c.c.): il co. 3 dell’art. 812 c.c. si limita a fissare un criterio di disciplina per quelle cose materiali (e al più, per applicazione estensiva dell’art. 814, corporali) le quali, per non essere immobili, vengono dal legislatore assoggettate ad un trattamento giuridico diverso.

Prossimo al problema in esame pare invece l’art. 813, u.p., c.c.: la norma attiene infatti alle entità ideali, immateriali, quali i fenomeni puramente giuridici (in cui rientrano certamente i diritti soggettivi). Tale disposizione, tuttavia, non estende il trattamento normativo della ‘cosa’ (materiale o corporale) al (contenuto del) rapporto giuridico al fine di legittimare il momento genetico di quest’ultimo (se cioè non si ritenesse possibile che da un credito possa nascere un rapporto di diritto reale avente ad oggetto il primo, tale ammissibilità non viene riconosciuta dall’art. 813 c.c. sulla scorta della considerazione che un bene mobile può essere oggetto di un diritto reale minore): essa si limita ad equiparare le sole vicende giuridiche di un rapporto, già a monte costituito, alla disciplina normativa dei beni mobili (ciò significa, per es., che il trasferimento di un diritto di aspettativa giuridica all’acquisto della proprietà di un bene mobile registrato sarà soggetto a trascrizione a norma dell’art. 2684, n. 1, c.c.).

[25] Denuncia, di recente, la “deleteria e fallace” tendenza del giurista a “sostanzializzare le parole”: P. Spada, Le parole del diritto commerciale, Riv. dir. priv., I, 2009, 9.

Per una ricostruzione della partecipazione societaria in termini analitici come insieme di singoli diritti tra loro annessi da un vincolo di reciproca strumentalità che deriva dal(la stessa causa del) contratto sociale, v. F. D’Alessandro, I titoli di partecipazione, ed. provv., Milano, 1968, 11 ss. e 118.

Cfr. Cass. pen., Sez. VI Sent., 21 febbraio 1994, n. 668 e Cass. pen., Sez. VI, 21 febbraio 1993.

     [26] Contraria in proposito si è invece mostrata una recente pronuncia di legittimità, emessa in materia di comunione legale dei beni tra coniugi: SC, 2.02.2009, n. 2569 (supra cit., alla nota n. 1). Secondo la riferita sentenza le partecipazioni in società personali rappresentano “cosa immateriale” (ex aa. 810 ed 812, u.c., c.c.) in quanto entità comunque circolabili, benché previo consenso necessariamente unanime della relativa compagine. Il riferito inquadramento, tuttavia, non può qui condividersi per essere contaminato nelle stesse premesse, all’evidenza, da un pregiudiziale momento ermeneutico di inattendibile ‘precomprensione’ (che si spera inconsapevole per risultare) gravemente illiberale ed incostituzionale (alla luce dell’art. 3 Cost.). Il provvedimento giudiziale in esame, infatti: i) presuppone l’ormai superata concezione istituzionalistica della famiglia (che tende a snaturare il diritto di famiglia innestandolo incondizionatamente, in ogni relativo istituto, nell’area del diritto pubblico – così sovrapponendo ai profili coniugali di giustizia distributiva ex aa. 177 c.c. nonché 29 e 35 Cost. quelli familiari, affatto differenti, di giustizia contributiva ex artt. 143 c.c. nonché 2 e 3 Cost. -); ii) dimentica che l’art. 178 c.c. è sorretto dalla ratio di agevolare l’iniziativa economica personale del coniuge (art. 41 Cost.) quando questi assume la qualità di imprenditore individuale e, per analogia, quella sostanziale di imprenditore collettivo nell’àmbito di esercizio della relativa attività lavorativa quando svolta in forma societaria (per la migliore dottrina notarile: v. C. Trinchillo, Partecipazioni sociali e comunione legale dei beni, in Scritti giuridici, Napoli, 2006, 144). Che l’acquisto di una partecipazione in società personale realizzi, per definizione, la funzione di far assumere all’acquirente la qualità di imprenditore materiale (per essere imprenditore formale l’ente giuridico di appartenenza) si ricava dalla semplice considerazione che la relativa ‘quota’ consente, in astratto, al socio di gestire in via diretta l’ente e, quindi, importa pure, per inscindibile nesso con la prima facoltà, l’assunzione per il titolare della partecipazione di una responsabilità personale ed illimitata.

[27] Cfr. G. Santini, Le società a responsabilità limitata, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1992, 10 ss.: si incorre in una contraddizione logica nel ricostruire la quota come oggetto di un diritto e, nel contempo, come pluralità di diritti e di obblighi essa stessa (coerentemente, per l’a., la cessione di quota equivale a cessione di contratto ex artt. 1406 e ss. c.c. ravvisandosi nel nostro caso anche i necessitati profili di corrispettività nell’ineludibile nesso che intercorre tra conferimento e partecipazione sociale: in dottrina si è da tempo messa in luce la possibile coesistenza tra contratto plurilaterale con comunione di scopo e contratto sinallagmatico, in quanto categorie dogmatiche non necessariamente contrapposte – cfr. Di Sabato, cit., 59 ed A. Dalmartello, Società e sinallagma, in Riv. dir. civ., 1937, 495 ss., ora id., in Studi di diritto civile e commerciale, II, Milano, 2009, 359 ss. -). V. inoltre F. Ferrara sen., Trattato di diritto civile italiano, Roma, 1921, 412; A. Cicu, L’obbligazione nel patrimonio del debitore, Milano, 1948, 86; F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, § 9, 147.

Contra, per l’ammissibilità del “diritto sul diritto”, cfr.: G. Venezian, Dell’usufrutto, 1, Napoli-Torino, 1931, 16 e B. Biondi, I beni, nel Trattato di dir. civ. diretto da Vassalli, Torino, 1953, 26.

Sul punto, in particolare, per illustre dottrina, il suggestivo fenomeno del “diritto sopra un diritto” vale a dare unicamente conto di un puro abbaglio in quanto si tratterebbe, invero, dell’affatto distinta e pacifica ipotesi di una delimitata coesistenza di più diritti, in titolarità di soggetti diversi, sul medesimo bene (Allara, cit., 36).

Quest’ultimo argomento vale a dimostrare che lo “usufrutto di quota” perorato dalla tesi qui disapprovata si sostanzierebbe (se non in un fenomeno di “diritto sul diritto”) in un’ipotesi di coesistenza intercorrente tra un diritto reale concesso dal creditore (!) sulla base di un credito che risulterebbe così dal primo oggettivamente limitato (in tal modo emergendo con massima evidenza che detta tesi si fonda in realtà sulla teorica della partecipazione sociale intesa come situazione di comproprietà sul patrimonio sociale – che è, tra le tutte indicate in limine al presente lavoro, quella che più si ritiene verosimile -). In realtà, pare alquanto manifesto, per realizzare l’operazione economica in esame non è affatto necessario né utile scomodare i diritti reali, soprattutto considerando che ‘è la ragione pratica a determinare i rapporti e ad influenzare la relativa tutela’.

     [28] Dove invece alquanto più elevato è il grado di impersonalità della compagine sociale, quale dato che vale a facilitare fenomeni di “mobilizzazione della ricchezza” (nelle forme tanto dell’investimento quanto della speculazione): in ordine alla “oggettivizzazione” ed alla “reificazione” dell’azione intesa alla stregua di una “cosa”, v. C. Angelici, La riforma delle società di capitaliLezioni di diritto commerciale, Padova, 2006, 67 (non a caso “tanto più l’investimento è frazionato in unità primarie, tanto più queste sono negoziabili come merci”); per la qualifica anche della quota di S.r.l. in termini di “bene” (immateriale equiparato a quelli mobili ex art. 812 com. 3 c.c.), cfr. Cass. n. 5494/1999 (in Giur. it., 2000, 101) e Cass. n. 697/1997 (in Società, 1997, 647).

     [29] Esemplari le considerazioni di una autorevole voce di dottrina: “A un giurista preme non […] la natura [di una entità, n.d.a.] in sé, ma come sia oggetto di godimento […], come base di relazioni fra gli uomini” (F. Carnelutti, Studi sulle energie come oggetto di rapporti giuridici, in Riv. dir. comm., 1913, 358 e 359).

[30] Che l’usufruttuario non sia soggetto idoneo a rivestire la qualità di socio è circostanza ormai diffusamente acquisita tanto dalla giurisprudenza quanto dalla dottrina: cfr. Tribunale Mantova, 14 marzo 2011 nonché, per la dogmatica, Ghidini, cit., 678; A. Pavone La Rosa, Usufrutto di quota sociale nelle società in nome collettivo, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Catania, I, 1948, 334; Santini, cit., 135; contra, tuttavia, si registra l’isolata opinione di F. Gradassi, Pegno, usufrutto, sequestro e pignoramento di quote di società in nome collettivo, in Contr. e impr., 1992, 1139, preceduta da una parimenti isolata pronuncia di legittimità (v. CC 12.9.1970 n. 1401).

Invece secondo l’affatto differente prospettiva di G. Ferri (Le società, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1979, 384): lo status di socio può essere riconosciuto solo congiuntamente al nudo proprietario ed all’usufruttuario in quanto titolari di una posizione unitaria. Contra A. Asquini, Usufrutto di quote sociali e di azioni, in Riv. dir. comm., 1947, 17.

Si veda sul punto anche D. Boggiali, nel Settore studi-pubblicazione quesiti CNN, quesito n. 106-2006/I.

[31] Cfr. G.F. Campobasso, op. cit., 85.

     [32] Discorre promiscuamente di “aspettativa creditizia affievolita” L. Barbiera, Controllo del creditore sul debitore e autonomia privata, Napoli, 1968, 29.

[33] Il rinvio è ad autori classici del calibro di D. Rubino, R. Scognamiglio ed E. Betti per i quali l’aspettativa non assurge mai a diritto soggettivo in quanto la posizione di attesa (di acquisto del diritto finale) è dagli stessi ritenuta incompatibile, in punto di contenuto, con un “potere della volontà” che possa dirsi effettivamente tale.

[34] Così per la dottrina più accreditata: L. Cariota Ferrara, Diritto al diritto, in Dir. giur., 1945, 145 e ss. nonché P. Perlingieri, I negozi su beni futuri, I, La compravendita di cosa futura, Napoli, 1962, 26 e Rapporto preliminare e servitù su <<edificio da costruire>>, Napoli, 1966, 111 ss.

Ma si vedano anche (oltre ad una consistente frangia della dottrina tedesca): N. Coviello, A. Falzea, D. Barbero, F. Santoro Passarelli e G. Cattaneo (per tali aa. l’aspettativa giuridica è idonea a rivestire la forma juris del diritto soggettivo pieno, benché a contenuto particolare, sulla scorta della differente ottica che ricostruisce quest’ultimo in termini di “interesse protetto”).

     [35] Si rinvia qui all’illuminante studio monografico di U. La Porta, Il trasferimento delle aspettativeContributo allo studio delle situazioni soggettive attive, Napoli, 1995.

[36] L’eventuale incedibilità del diritto finale si comunica anche all’aspettativa giuridica.

[37] L’art. 1265 c.c. si applica al caso de quo in quanto la situazione finale non ha struttura reale: la citata norma è volta a risolvere il conflitto tra più cessionari dello stesso diritto quando la situazione finale è data da un diritto avente natura personale.

[38] Sul punto cfr. La Porta, cit., 378 e 379.

[39] Senza doversi con ciò aderire a quella isolata tesi ricostruttiva (v. Ghidini, op. cit., 676) che ravvisa nell’usufruttuario una figura in qualche modo analoga a quella dell’institore (quale ed in quanto soggetto sfornito del diritto di voto in sede di modifica dell’oggetto sociale, nonché dei poteri di vendere beni immobili e di costituire ipoteca).

[40] Detto principio affonda le proprie radici nella risalente ritenuta inidoneità funzionale dello strumento contrattuale (qui inteso quale forma giuridica del rapporto di volontà che si instaura tra i contraenti) a conformare il regime di godimento e di appartenenza dei beni (mettendosi altrimenti in crisi il valore-cardine della sicurezza della circolazione giuridica): il contratto esplica tradizionalmente la propria rilevanza ordinamentale solo nell’area della funzione di scambio (l’art. 1322 c.c. opera nella dimensione squisitamente circolatoria propria della costituzione e/o del trasferimento di diritti reali) senza poter incidere in punto di utilizzazione economica delle res – la stessa possibilità di obbligarsi a conferire una certa destinazione ad un dato bene si riteneva ammissibile esclusivamente attraverso la previsione di un onere apponibile ai soli atti a titolo gratuito o, comunque, si sarebbe trattato di un vincolo di natura strettamente personale e, come tale, non assumibile a contenuto del diritto reale che avrebbe altrimenti potuto venire strutturalmente modellato finanche ab intrinseco – (cfr. A. Di Majo, Obbligazioni e contrattidispense della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma –, Roma, senza data, 227 e ss.).

[41] Per tutti cfr. A. Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1962, 104. In giurisprudenza: v. Trib. Bologna, 24 aprile 2001, in Le società, 2002, 496. Contra, tuttavia, Di Sabato, cit., 115-116.

Il problema involge quello ulteriore dell’applicabilità o meno (analogica) alle società di persone dell’art. 2352 c.c.. In merito:

– per la soluzione affermativa (oltre a Graziani, cit., 113 e ad Asquini, cit., 17 e 24): la giurisprudenza di merito e Cass. 19 agosto 1996 n. 7614, in Le società, 1997, 390;

– per la negativa: Ghidini, cit., 674; G. Brunetti, Trattato delle società, Milano, 1950, 152; G.C.M. Rivolta, Pegno ed usufrutto di quote di società a responsabilità limitata e diritto di voto, in Riv. dir. comm., 1961, 210; Santini, cit., 136; Piscitello, Società di persone a struttura aperta e circolazione delle quote. Modelli legali ed autonomia statutaria, Torino, 1995, 227. Tant’è, è dato leggere, che l’art. 2352 c.c. non è richiamato in sede di disciplina delle S.r.l. e, in materia, nulla è previsto nell’alveo delle società personali: ciò sarebbe un chiaro segno dell’intento del conditor iuris di limitare alle sole S.p.a. la possibilità di costituzione del diritto di usufrutto sulla relativa partecipazione (per l’avvertita esigenza pratica di offrire alla particolare struttura societaria in esame un elevato grado di efficienza e rapidità di decisione).

[42] In tale diversa prospettiva, per la costituzione del diritto di usufrutto, sarebbe richiesto il consenso di tutti i soci in quanto operazione modificativa del contratto sociale ex art. 2252 c.c.

V., sul punto, Trib. Biella 23 ottobre 1999, in Dir. fall., 1999, 1250; e, in dottrina, cfr.: Ghidini, op. cit., 679; F. Corsini, Note in tema di usufrutto su quota di società di persone, in Not., 1998, 353.

[43] Lo stesso dicasi qualora le parti intendano regolare, per il caso di scioglimento dell’ente, anche la sorte dei “frutti” relativi alla quota di liquidazione.

[44] Quanto alla facoltà di recesso, infatti, il cedente non può essere obbligato a rimanere vincolato nella posizione di socio a responsabilità illimitata (Graziani, op. cit., 115).

[45] Cfr. O. Scozzafava, Dei beni, in Commentario Schlesinger, sub artt. 810-821, Milano, 1999, 10.

[46] V. Cass. 3 novembre 1989 n. 4603, in Giur. it., 1990, I, 937 (così anche A. Brunetti, Tratt. dir. soc., III, Milano, 1950, 116).

[47] Si veda: V. Buonocore, G. Castellano, G. Di Chio, Società di persone, Milano, 1978, 487.

Per Rubino possono essere date in pegno solo cose e diritti che siano nel contempo alienabili ed espropriabili: il consenso dei soci conferisce tale carattere alla quota di società personale (cfr. D. Rubino, La responsabilità patrimoniale, il pegno, in Trattato Vassalli, Torino, 1952, 202).

[48] V., ex multis, Cass. n. 8784/’97.

[49] Cfr.: Ghidini, op. cit., 684.

[50] In tal senso anche Trib. S.M. Capua Vetere 30 aprile 1991 e Trib. Milano 18 gennaio 1987.

Sulla natura del pegno dei crediti si registra un’accesa disputa dottrinale: diritto reale su credito; cessione condizionata; cessione a “scopo” di garanzia; legittimazione straordinaria del terzo garantito a far valere un diritto altrui (tesi, quest’ultima, da ritenersi ad oggi probabilmente come la prevalente).

[51] Quale situazione soggettiva attiva attuale rientrante, estensivamente, nella previsione di cui all’art. 2800 c.c. (laddove l’art. 2806 c.c. si ritiene comunemente faccia riferimento alla materia dei beni immateriali quale quella dei brevetti industriali e dei diritti d’autore laddove sono previste norme specifiche che disciplinano le singole ipotesi di trasferimento).

[52] Il principio di realità del contratto costitutivo di pegno opera ovviamente solo in riferimento alle cose corporali, come tali, suscettibili di essere possedute (da ciò si evince pure l’inusucapibilità della quota di società di persone, v. Cass. 3 novembre 1989 n. 4603).

[53] Stante la prevalenza del momento negoziale su quello organizzativo (all’opposto di quanto invece avviene nell’àmbito delle strutture capitalistiche): ne discende la potenziale illegittimità della decisione (anche quando unanime) che destini gli utili, in relazione a quelli spettanti al socio-debitore o terzo datore, a fini diversi dalla distribuzione (in considerazione del connesso diritto esistente in capo al creditore oppegnorante) fatto salvo quanto sancito dall’art. 2303, com. 2 c.c. Nell’area delle società di persone non si ritiene infatti esigenza primaria quella di rispettare la libertà decisionale dell’ente e, per esso, della maggioranza dei suoi membri.

[54] Oggetto esclusivo della garanzia è il diritto di aspettativa giuridica (quale facoltà individualizzata) e non la sua stessa matrice rappresentata dal complessivo rapporto sociale.

     [55] Come invece paventato da D. Boggiali e A. Ruotolo negli Studi di Impresa del CNN, Studio n. 152-2008/I.

[56] L’acquirente dell’aspettativa de qua subentra solo nel lato attivo del rapporto preliminare e non anche in una posizione contrattuale (restando così egli normalmente escluso dal subentro anche nell’aspettativa alla quota di liquidazione in quanto prerogativa che ha diretta ed immediata fonte e ragione giustificativa nel sinallagma genetico della fattispecie negoziale societaria per come posta in essere mediante il sacrificio patrimoniale sopportato a suo tempo dal socio ora debitore – vertendosi in tal caso nell’alveo di una sostanziale situazione di qualificata attesa alla restituzione del conferimento iniziale -).

[57] Controversa è in dottrina la stessa ammissibilità di un patto diretto a non vendere la cosa data in pegno; per la negativa: cfr. S. Ciccarello, Pegno (diritto privato), in E.D., XXXII, Milano, 1982, 699.

[58] Contro la ricostruzione da ultimo avanzata (ossia del “pegno di quota” come garanzia ‘anomala’), v.: Gradassi, cit., 1136.

[59] Cfr. S. Sangiorgi, Rapporti di durata e recesso ad nutum, Milano, 1965, 63, in nota n. 94. Sul tema v. anche G.C.M. Rivolta, La società come rapporto di durata, in Riv. dir. soc., 1962 nonché M. Stella Richter, Il tempo nei contratti sociali e parasociali, in Aa. Vv., La rilevanza del tempo nel diritto commerciale, Milano, 2000, 128 e ss.

Per il contratto associativo quale fonte idonea a gemmare un peculiare rapporto di durata si rinvia al recente scritto di A. Luminoso, Il rapporto di durata, in Riv. dir. civ., 2010, I, 521-523.

In verità la rilevata particolarità della fattispecie associativa, nell’àmbito della ‘categoria’ dei contratti di durata, si spiega per la circostanza che essa è strumento idoneo ad assicurare operativamente ai privati che se ne servono tanto una essenziale fase ad esecuzione continuata – necessaria a strutturare (in punto di efficacia conformativa reale) la dimensione organizzativa del fenomeno sociale – quanto una conseguente fase fisiologica ad esecuzione periodica (e cioè: quella interessata da questo studio) – necessaria a fornire la debita tutela all’ulteriore imprescindibile momento, prettamente negoziale (o individuale), relativo alla attuazione del cd. scopo-fine -.

[60] Mentre nei c.d. contratti di durata (in senso stretto) ad esecuzione periodica si ha, per la tesi prevalente, un’unica obbligazione in sé idonea a dar vita ad una pluralità di prestazioni (in tal modo riuscendosi a ricondurre ad unità la categoria de qua in quanto comprensiva anche dei contratti ad esecuzione continuata – ove vi è una sola obbligazione con prestazione ad adempimento ininterrotto -), nel caso in oggetto (dove la durata – e la connessa attesa – è in realtà, per ragioni di necessità oggettiva, più subita che voluta dai contraenti) si ha quel fenomeno che potrebbe descrittivamente (e, dunque, non ontologicamente) rappresentarsi come un “fascio” aperto di autonome (ma non isolate) aspettative periodiche ad attuazione istantanea la cui organizzazione (anche cadenzata per esercizi sociali) opera in funzione della durata del rapporto societario e deriva dalla particolare struttura (e funzione, appunto, organizzativa) del contratto sociale (che non presenta certo, solo per questo, alcun profilo di “normatività”) in cui esse stesse rinvengono la propria comune fonte.

In caso di società a tempo determinato: le singole aspettative vengono programmaticamente coordinate sotto il profilo temporale attraverso lo stesso strumento contrattuale; nel caso invece di società a tempo indeterminato: non sarà determinabile a priori il numero concreto di aspettative che si sintetizzerà metagiuridicamente ad unità nel suddetto fascio “aperto” (concettualmente ben divisibile in quanto raffigurazione esemplificativa non rientrante, prima di ogni altra considerazione, né nella fenomenologia dello ”essere” né in quella del “dover essere”).

La stessa disciplina della prescrizione del diritto agli utili (cfr. art. 2949, 1° com. c.c.) comprova come l’aspettativa in esame non sia data da un’unica ed isolata forma juris (altrimenti tale diritto, una volta prescritto, dovrebbe considerarsi non più efficacemente esercitabile anche per gli utili maturati negli anni successivi al decorso del primo quinquennio).

[61] Tenendosi vieppiù presente come il relativo corrispettivo sarà da commisurarsi non al valore del diritto finale sperato ma a quello dell’attuale aspettativa di diritto (non potendosi, in sede di vendita forzata, mutare ad libitum il tipo di bene posto ad oggetto della garanzia reale).

[62] La possibilità che, in una società di persone, il creditore pignoratizio possa ricoprire la carica di amministratore è questione strettamente collegata all’ammissibilità di un amministratore non socio nell’àmbito di detto schema organizzativo ed all’applicabilità analogica dell’art. 2352 c.c. dettato nella sedes materiae delle S.p.a.

     [63] V. App. Milano 23 settembre 1997 (in B.B.T.C., 1998, II, 401).

[64] Il termine di “cosa produttiva” è riferibile a qualsiasi bene capace di produrre altra ricchezza (per la corretta lettura in estensione della succitata norma, cfr. U. Romagnoli, Affitto – disposizioni generali, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, 1978, Bologna-Roma, 16 e ss. e G. Capozzi, Dei singoli contratti, Milano, 1988).

Nel caso di specie: il bene produttivo cui le parti fanno riferimento nella stipulazione del contratto di affitto è l’aspettativa giuridica (agli utili) che funge qui da termine di riferimento oggettivo ai fini della determinazione quantitativa del contenuto della pretesa creditoria in titolarità dell’affittuario.

Della normativa dell’affitto non sarebbero applicabili l’art. 1575 n. 1 (in punto di consegna della res locata) e n. 2 c.c. (obbligo di mantenimento in istato da servire all’uso pattuito).

[65] In tal modo si riesce ad abbattere il reddito imponibile derivante dagli utili distribuibili.

[66] Nel caso in oggetto: riferita alla produzione degli utili nello svolgersi dinamico del rapporto sociale.

[67] V. Cass., 12 settembre 1970 n. 1410, in Dir. fall., 1971, II, 198-199; Cass., 25 marzo 1966 n. 787, in Riv. dir. fall., 1966, II, 570; Cass., 22 giugno 1963 n. 1686, in Riv. dir. fall., 1963, II, 658.

[68] V. Cass. civ., Sez. I, 26 maggio 2000, n. 6957; Cass., 30 gennaio 1997 n. 934; Trib. Bari, 20 marzo 1965; Trib. Trani, 20 luglio 1983; Trib. Napoli, 25 febbraio 1994; Trib. Cassino, 24 ottobre 1997; Trib. Monza, 29 gennaio 2001; Trib. Taranto, 4 febbraio 2010.

È peraltro consentito il sequestro giudiziario dei beni sociali su istanza del socio di società personale a tutela della relativa quota di partecipazione: Trib. Piacenza, 28 febbraio 1995; relativista è, nel merito, Trib. Palermo, 31 marzo 1989.

       [69] Così è anche per T. Trento, 6 settembre 1996; in dottrina v. G. Cottino, M. Sarale, R. Weigmann, Società di persone e consorzi, Tr. dir. comm. diretto da G. Cottino, Padova, 2004, 240. Peculiare il caso sottoposto alla cognizione di Trib. Trieste, 27 luglio 2002.

Per altro verso depongono per la inammissibilità del sequestro giudiziario di crediti: Cass. civ. Sez. I, 23 novembre 1991, n. 12595 e Cass. civ., Sez. III, 06 agosto 1965, n. 1879; contra, e quindi per l’ammissibilità, Pret. Roma, 10 gennaio 1969.

Resta in ogni caso esperibile, anche per chi non intendesse riconoscere al diritto di aspettativa l’estensione della medesima tutela di cui fruisce il diritto di credito, lo strumento residuale, azionabile pure ante causam, di cui all’art. 700, c.p.c. (cfr., ma in tema di S.r.l., Trib. Marsala, 7 giugno 2005).

[70] Cfr. Cass. civ., Sez. I, 23 novembre 1991, n. 12595; Trib. Roma, 2 dicembre 1985, in Foro it., 1986, I, 835; Trib. Chiavari, 27 ottobre 1987; Trib. Benevento, 24 settembre 1991; Trib. Melfi, 8 novembre 1975; Trib. Rieti, 27 settembre 1973; App. Bologna, 21 luglio 1971.

[71] Cfr. Trib. Milano, 6 febbraio 1966; Trib. Ravenna, 12 aprile 1994; App. Milano, 23 marzo 1999, in Vita not., 2000, 388.

[72] Cfr. Di Sabato, op. cit., 128.

La giurisprudenza, sul presupposto della connotazione creditoria della partecipazione sociale considerata al momento futuro della liquidazione ed in base all’irrilevanza ai fini che qui importano dell’illiquidità o della condizionabilità del credito, ritiene sequestrabile e pignorabile la quota spettante al socio in sede liquidatoria (v. App. Milano, 4 dicembre 1970, in Foro pad., 1971, I, 508; Cass., 3 gennaio 1970, n. 2 e App. Genova, 12/06/2001).

Non è certo possibile sostenere con successo che, in tal modo, nel tentativo di vincolare la sola quota di liquidazione, si colpisce invero l’intera quota societaria.

[73] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 21 febbraio 1994, n. 668.

[74] V., per multis, Cass. pen., Sez. VI, 24 marzo 1992 nonché Cass. pen., Sez. V, 12 maggio 2000, n. 2757; Cass. pen., Sez. V, 22 gennaio 2010, n. 16583; Cass. civ., Sez. I, 11 novembre 2005, n. 21858; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 2005, n. 13169; Cass. pen. Sez. V, 13 aprile 2004, n. 21810 e Trib. Alba, 28 novembre 1995 (benché dette pronunce sono state emesse con riguardo alle partecipazioni in società di capitali).

[75] Cfr. Cass. pen. Sez. VI, 11 luglio 1994, n. 3345.

[76] Cfr. Trib. Piacenza, 18 gennaio 1995; Cass. pen., Sez. V, 12 maggio 2000, n. 2757; Cass. civ., Sez. I, 5 giugno 1999, n. 5533; Cass. civ., Sez. III, 12 dicembre 1986, n. 7409 e Cass. civ., 27 gennaio 1984, n. 640.

[77] Cfr. Trib. Milano, 28 marzo 2000 e Trib. Milano, 17 febbraio 2000.

[78] V. F. Angeloni, Il creditore particolare del socio, in Riv. dir. comm., 1955, I, 101 (nonché, per i Giudici di merito, Trib. Monza 5 dicembre 2000 e Trib. Ravenna 12 aprile 1994). Ma cfr. la critica mossa da E. Grasso, L’espropriazione della quota, Milano, 1957, 244.

     [79] Qualora poi si ritenga che l’espropriazione della quota avvenga secondo le forme del pignoramento presso terzi (ossia presso la società – evidentemente nella sua qualità di debitrice della prestazione degli utili -) risulta altresì evidente come la realtà effettivamente sottesa al termine ‘quota’ altro non sia se non un credito o, per esso, una situazione soggettiva attiva di aspettativa giuridicamente tutelata. In realtà tal’ultima specifica forma dell’agire processuale si deve ritenere come quella da adottare non tanto “per esclusione dell’applicabilità di altre procedure esecutive” quanto per specifica determinazione.

[80] Cfr. G. Ferri, Delle società, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1972, 197.

[81] Fatto salvo il caso in cui nel contratto sociale sia già stata inserita antea una clausola di libera trasferibilità della partecipazione (qui i soci hanno già espresso ab origine il consenso a che chiunque possa in futuro entrare a far parte della compagine sociale): Cass. n. 15605/2000 e Trib. Monza, 8 maggio 2000. Contra (in critica al principio in base al quale tutto ciò che è alienabile è anche espropriabile): F. Galgano, L’espropriazione forzata dei <<diritti dell’assegnatario>> nella legge di riforma fondiaria, Riv. dir. civ., 1964, II, 589 ss..

[82] Correttamente (quantomeno in relazione al risultato cui si perviene) gli stessi Giudici di legittimità hanno ritenuto inefficace il pignoramento quando diretto sulla quota sociale e non sul diritto agli utili o sulla “quota” di liquidazione: cfr. Cass. 26 giugno 1976 n. 2409, in Giust. civ., 1977, I, 144.

[83] Erra Trib. Rieti, 29 ottobre 2002.

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