“La scissione posta in essere dal delato importa di necessità il subingresso in omne ius quod defunctus habuerit ? Profili di un’amministrazione legale conservativa in seno alla successione mortis causa nelle “pieghe” del fenomeno successorio tra lo scindere e la pro herede gestio”, in Vita notarile, 2, 2010

Profili di un’amministrazione legale conservativa in seno alla successione mortis causa nelle “pieghe” del fenomeno successorio tra lo scindere e la pro herede gestio ([1]).

Sommario: 1. Il fatto. 2. Rilevanza effettuale della scissione. 3. Conseguenze di diritto successorio alla luce della scissione posta in essere dal chiamato attraverso l’utilizzazione della partecipazione sociale ricompresa nell’asse ereditario. 4. Analisi del rapporto tra proprietà ed impresa in riferimento alla dimensione gestionale. 5. Considerazioni conclusive.
  1. Il fatto

La vicenda oggetto del presente complessivo lavoro può essere così introdotta, per punti:

  1. a) Sempronio, Mevia e Caio, figli dell’ereditando Tizio (vedovo) e delati ab intestato all’eredità del medesimo, intendono scindere la società Alfa S.r.l., ricompresa nell’attivo dell’asse ereditario ed in riferimento alla quale i medesimi chiamati risultano essere parti contraenti, mediante costituzione della società Beta S.r.l. senza che, in tal’ultimo ente (ferma la ‘vitalità’ del primo), venga alterata l’originaria proporzione in punto di partecipazione al rapporto sociale e senza che tale operazione importi, per ciò solo, la ravvisabilità, in capo ai chiamati, di alcuna delle possibili fattispecie di accettazione della massa patrimoniale dell’is de cuius hereditate agitur.
  2. b) La scissione è operazione che importa, sotto l’aspetto funzionale, mera modificazione del sistema organizzativo d’impresa.

Gli artt. 2506 e 2545 novies c.c. rappresentano innegabili indici formali dai quali, oggi, la migliore dottrina trae favorevole argomento a conferma delle tesi dirette a negare all’istituto oggetto del presente vaglio una qualsivoglia rilevanza traslativa nella invece affatto peculiare produzione effettuale.

  1. c) Il procedimento de quo è tale, dunque, da ricadere nell’alveo dell’ 460, cpv. c.c.

La scissione, quale strumento di razionalizzazione delle strutture produttive, integra infatti una fattispecie procedimentale non sussumibile nella disposizione di cui all’art. 477 c.c. (anche per la mancata ravvisabilità nella prima di un qualsiasi trasferimento), né in quella di cui all’art. 476 c.c. (perché, secondo la preferibile teoria sviluppata in tema di atti di gestione privatistica, la surriferita operazione deve correttamente riguardarsi come atto di amministrazione a stretto rilievo non straordinario ed in quanto, comunque, l’assunta deliberazione non risponde ad un criterio formale d’imputazione analitica al soggetto votante riguardato uti singuli).

  1. d) i chiamati potranno altresì porre in essere la divisata operazione economico-giuridica senza doversi curare di munirsi preventivamente di alcun provvedimento giudiziale autorizzativo per come potenzialmente richiesto dall’art. 460, 2° com., 2a parte c.c.

Risulta difatti applicabile il 2° com. dell’art. 460 c.c. nella sua 1a parte. Tuttavia, stante gli ancòra mutevoli ed opposti orientamenti della dottrina sulla natura dell’accettazione contemplata dall’art. 476 c.c., sarà altresì all’uopo prudente accorgimento empirico quello di consigliare, l’operatore giuridico, i relativi clienti di porre in essere una vera e propria protestatio, da riversare negli stessi atti sociali[2], allo scopo di scongiurare il rischio del prodursi, in testa ai chiamati, di un tacito acquisto dell’eredità del padre defunto Tizio (non ritenendosi in ogni caso opportuno avvalersi della facoltà di esenzione accordata dall’art. 2506 ter, 4° com. c.c.)[3].

Nell’accingersi a sviluppare ex professo l’iter argomentativo appena sopra in sintesi rappresentato, il dato da cui prendere le mosse è, come sempre, quello fattuale in base al quale i chiamati all’eredità del de cuius Tizio intendono scindere la società Alfa S.r.l., quale cespite ricompreso nella massa ereditaria interessata e della quale i chiamati stessi sono anche soci “in proprio”, assegnando parte del patrimonio della scindenda alla società Beta S.r.l., di nuova costituzione, senza che (in quest’ultima struttura societaria) risulti alterata l’originaria proporzione in punto di partecipazione al rapporto sociale[4].

Con l’anticiparsi sin d’ora quelli che saranno gli esiti del presente studio pare che esista il margine per sostenere la tesi della configurabilità dell’operazione in argomento senza con ciò ricadersi in un’ipotesi di adesione alla delazione ereditaria[5] in quanto, si ritiene, la scissione in esame non rientra certamente tra le ipotesi contemplate dagli artt. 477 e 478 c.c. né tra quelle riconducibili all’art. 476 c.c.

La specifica fattispecie concreta, infatti, integra un atto di gestione puramente conservativa dell’asse ereditario, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 460 c.c.

  1. Rilevanza effettuale della scissione

In via preliminare si crede opportuno che lo studio della vicenda qui sottoposta all’attenzione del lettore[6] debba metodologicamente prendere le mosse da una compiuta valutazione degli effetti della scissione per come disciplinata dal conditor iuris della riforma del diritto societario[7] agli artt. 2506[8] e ss. c.c.

Ad oggi, con la crisi del tradizionale dogma della persona giuridica aperta dalle moderne teorie “riduzionistiche”[9], non pare più sostenibile la tesi classica (prevalente nel pensiero dottrinario ante riforma e fatta propria, per lo più, dai giudici di legittimità[10]) che ricostruiva la scissione come un vero e proprio fenomeno di successione (causalmente) a titolo universale tra enti (c.d. successio per universitatem da parte delle beneficiarie nei confronti della scissa)[11] , comunque, la vicenda in esame può essere in ogni caso ricostruita come successorio-traslativa di rapporti patrimoniali, quand’anche inter vivos ed a titolo particolare, nella direzione (“esterna”) società scissa – società beneficiaria/e[12].

Per i primi commentatori post riforma[13], nonché per la prassi notarile[14], ogni forma di scissione viene prevalentemente ricostruita come un’ipotesi, straordinaria (speculare alla fusione), di riorganizzazione dell’attività d’impresa (della scissa) con funzione di sola modificazione del contratto sociale o dell’assetto organizzativo d’impresa[15] (tale tesi, tuttavia, presta il fianco alla facile obiezione di offrire una raffigurazione del fenomeno meramente descrittiva poiché non in grado di cogliere l’effettiva sostanza del procedimento che vorrebbe analizzare).

Senza per ciò solo adombrare l’esistenza di un’eclettica tesi di mezzo che ha riconosciuto all’istituto natura modificativa sebbene pur sempre intimamente connessa ed essenzialmente intermediata da un trasferimento di patrimonio, quale effetto traslativo definito “innegabile”, dalla scissa alla beneficiaria[16]: la scissione attuerebbe una “modifica organizzativa mediante un fenomeno di circolazione di beni, diritti e debiti” (tesi c.d. modificativo-traslativa).

In verità si ritiene invece corretto accogliere quell’attenta opinione di dottrina[17] che, nell’inquadrare la fattispecie scissionale nell’alveo delle operazioni di disgregazione di patrimoni aziendali mediante un fenomeno separatorio che si attua attraverso la soggettivizzazione (e, quindi, al di fuori del meccanismo oggettivo di cui agli artt. 2447-bis ss. c.c.), mette in luce come la scissione non risulti minimamente assistita da alcuna causa traslativa ma valga invece ad esprimere una funzione dispositiva di rimodellamento aziendale: nella complessiva operazione in esame non è ravvisabile alcuna volontà di trasferire, dandosi in realtà vita, sotto questo profilo, ad una successione a titolo particolare, ex lege, in favore degli enti beneficiari (per i quali ultimi opera dunque un semplice fenomeno di subingresso nella parte di patrimonio agli stessi assegnato dalla scissa)[18].

Se infatti è certa l’essenzialità del prodursi di un effetto successorio (poiché non è seriamente da porre in dubbio l’intervento di una modificazione soggettiva nella titolarità dei rapporti sociali derivati dallo svolgimento dell’attività d’impresa), altrettanto non può dirsi in riferimento al reale verificarsi di un effetto traslativo.

Tant’è che preme qui evidenziare come l’affatto peculiare potere dispositivo che ci occupa si innesti in un fenomeno successorio, predeterminato dallo “ordinamento commercialistico”, relativo alla destinazione che il patrimonio della scissa dovrà avere all’esito del procedimento in oggetto. Se si decide di scindere, l’effetto indeclinabilmente previsto dal legislatore è quello della successione (in tutto o in parte) nel patrimonio dell’ente scindente: il profilo dispositivo, centrale nell’adozione delle forme tipiche della scissione, si riduce (quoad effectum) alla separazione di quella parte di patrimonio del quale la scissa non intende più risultare titolare (giungendosi così contestualmente ad individuare in via programmatica il nuovo concreto referente soggettivo), quale vicenda che, indi, apre al prodursi di un effetto successorio sempre uguale a se stesso (in quanto regolato in via generale ed astratta dal sistema) e che si connota, sul versante aziendalistico, per la tensione alla modifica in rimodellamento della dimensione organizzativa degli enti interessati. Non v’è traccia di trasferimento alcuno (in quanto è la volontà della legge che sovrintende alla continuazione dei rapporti d’impresa): l’area di operatività dell’autonomia privata, sub species di potere “dispositivo-destinatorio scissionis causa“, è consegnata: i) alla volontà di attivare o meno lo specifico procedimento funzionale a produrre la modificazione organizzativa de qua (i.e.: “se modificare”); ii) alla relativa libertà di adozione del contenuto concreto del regolamento modificativo (i.e.: di “come modificare”, anche quantitativamente); nonché iii) all’individuazione dei soggetti successibili (i.e.: “chi beneficerà della modifica”, disinteressandosi del tutto di dare impulso ad una qualsivoglia fuorviante vicenda di attributiva)[19].

Quindi la scissione si sostanzia in un meccanismo di “trapasso” operante ex lege, dove la volontà rappresenta un mero presupposto della relativa vicenda effettuale in quanto l’effetto successorio integra un dato necessariamente prodotto dall’operazione di rimodellamento aziendale[20].

Risulta così acclarato come la vicenda che si produce in seno alla scissa ben possa determinare ex lege, nella sua specifica unitarietà di funzione, una somma di tante successioni (inter vivos) a titolo singolare in ciascuno degli elementi patrimoniali attivi e passivi interessati dalla medesima operazione sociale, laddove la relativa causa in astratto (separatoria) non riveste la benché minima valenza attributiva ma è diretta alla formazione di un patrimonio separato quale effetto essenzialmente funzionale a consentire, in uno, l’operatività della conseguente successione “causa scissionis” in favore del soggetto giuridico beneficiario. In sostanza: l’ordinamento impone alla società che si vuole scindere di determinare in via programmatica quale parte del patrimonio della stessa dovrà essere dedotto ad oggetto di successione e le consente tipicamente di farlo attraverso una separazione soggettivizzata della massa che s’intende destinare alla riorganizzazione.

Si potrebbe quindi fondatamente affermare come il patrimonio della scissa si separa con il destinare e non con l’attribuire: così anche, in uno, si chiarisce (nel rendersi giustizia alla struttura unilaterale del fenomeno della successione sostitutiva che si produce nell’alveo della scissione totale in favore di beneficiarie di nuova costituzione[21]) la reale portata del concetto di “assegnazione”, tanto tormentato in dottrina e qui da intendersi come una qual sorta di “messa a disposizione ai fini della produzione della vicenda successoria” in esame[22].

Invece, nell’affatto differente direzione (“interna”) società “beneficiaria/e” – “(posizioni dei) soci della scissa”, possono ravvisarsi (causa in concreto)[23] profili dispositivi tra i soci medesimi (aventi ad oggetto le partecipazioni in predicato di essere ricevute dalla beneficiaria) che tendono a produrre una vicenda di ridistribuzione della ricchezza aziendale e che incidono sul diritto di ciascun socio della scissa a continuare ad esercitare (proporzionalmente o meno), in comune con gli altri, l’attività d’impresa originariamente programmata con il contratto di società[24].

In conclusione si può a ragione affermare che la scissione integri:

  1. i) aziendalisticamente, una modificazione delle strutture organizzative d’impresa; ii) tipologicamente, un fenomeno sorretto da una causa destinatoria funzionale a consentire l’operatività della successione legale scissionis causa (con ciò solo mettendosi in luce l’aspetto realmente connotante il fenomeno); iii) in compenso[25]: sta l’assegnazione o l’attribuzione delle partecipazioni delle beneficiarie ai soci della scissa (rispettivamente ex artt. 2506, 1° com. e 2506-bis, com. 4 c.c.); iv) la causa in concreto risiede nel sottostante programma imprenditoriale il quale ultimo conduce: a dimensionare la portata dell’effetto separatorio da prodursi in testa alla scissa, a scegliere tra l’assegnare o l’attribuire ai soci della scissa nonché a determinare la portata della modalità quindi ritenuta preferibile. Da ciò, in generale, deriva ulteriormente il rilievo in base al quale mentre la causa in astratto vale a connotare di sé l’effetto successorio, la causa in concreto interessa invece il piano del trasferimento[26].

Dunque, sul piano dispositivo-negoziale, la scissione programma imprenditorialmente l’operazione aziendalistica (tanto sotto il profilo oggettivo quanto sotto quello soggettivo) e, di conseguenza, separa (rectius: destina separando). Il resto alla legge.

  1. Conseguenze di diritto successorio alla luce della scissione posta in essere dal chiamato attraverso l’utilizzazione della partecipazione sociale ricompresa nell’asse ereditario

Si è detto come la scissione, qualsiasi sia la tesi che si voglia abbracciare in ordine alla relativa struttura effettuale, implica con certezza un fenomeno dispositivo inteso, quest’ultimo, nel senso di “modificazione della struttura organizzativa” (laddove la beneficiaria succede nel patrimonio della scissa ed assegna partecipazioni ai soci di quest’ultima).

Ciò, prima facie e per quanto di interesse al presente lavoro, potrebbe far ritenere generalmente applicabile tout court, nella dimensione ereditaria, l’art. 476 c.c. (quale norma che contempla l’ipotesi dell’accettazione c.d. tacita dell’eredità mediante atto, appunto, dispositivo della stessa[27]).

Tuttavia non pare potersi affrontare e definire così semplicisticamente la questione sottoposta al presente vaglio.

Si deve ritenere che sul versante ereditario (ossia in riferimento alla ravvisabilità o meno di un’efficacia dispositiva applicata ai beni caduti in successione), esaurendosi la complessiva vicenda all’interno del relativo asse, diviene determinante la considerazione del lato “interno” dell’operazione così che la scissione, ai presenti fini, può concretamente atteggiarsi in modo diverso a seconda che la stessa rivesta o no carattere proporzionale:

  1. a) se la scissione è “non proporzionale” (v. art. 2506-bis, com. 4 c.c.)[28] la vicenda implica con certezza, nella dimensione “interna” (qui a rilievo anche ereditario), un profilo dispositivo ulteriore (rispetto a quello tipicamente “esterno” della scissione) che imporrà all’interprete di fornire una soluzione all’esito del raffronto della fattispecie concreta con gli artt. 460, 476, 477 e 478 c.c.. Ma l’ipotesi non rientra nel caso de quo;
  2. b) se invece la scissione è “proporzionale” (quand’anche la proporzionalità risulti garantita dal versamento di un conguaglio in danaro ex art. 2506, cpv., 1a alinea c.c.), si possono dare casi nei quali non è ravvisabile alcun fenomeno dispositivo dell’eredità tra i medesimi soggetti alla stessa chiamati quand’anche l’operazione giunga direttamente ad interessare la partecipazione ricompresa nell’asse;
  3. c) “altra” è invece la scissione c.d. “asimmetrica” (di cui all’art. 2506, com. 2 c.c.): la fattispecie rientra, per la dottrina più coerente[29], in una dimensione prevalentemente contrattuale trattandosi, in realtà, di una vicenda in qualche modo “para-scissoria” (sulla scia di quella dottrina ereditaria indicata nel prosieguo del presente scritto ed alla quale qui non si aderisce[30]: la vicenda in esame potrebbe giungere finanche ad integrare un 478 c.c.).

Nella scissione “proporzionale” resa oggetto del presente studio si assiste ad una mera vicenda successoriaper assegnazione[31] in quanto l’operazione, volta a rifrangersi sul solo piano delle formae iuris dell’organizzazione d’impresa, può dirsi riprodurre sulla realtà sottostante un fenomeno a semplice rilevanza paradivisoria: tant’è che, in mancanza del benché minimo depauperamento del patrimonio ereditario (anzi, diversificandosi all’esito di tale operazione il rischio d’impresa, non difficilmente l’asse ereditario ne potrebbe trarre indiretto vantaggio) e spettando le partecipazioni agli stessi soggetti nelle medesime proporzioni prima e dopo la divisata operazione[32] (non essendo comunque dato ravvisare il prodursi di fenomeni dispositivi tali da alterare la sostanza delle posizioni di partenza rispettivamente occupate dai soci-chiamati) , l’intera fattispecie si ritiene rientrante nell’alveo dell’art. 460 c.c. ([33]).

In tale evenienza si sostiene infatti che:

  1. i) l’art. 476 c. (accettazione c.d. tacita dell’eredità)[34] non risulta applicabile per le suesposte ragioni e per quelle che si andranno in sèguito meglio a precisare[35];
  2. ii) gli artt. 477 e 478 c., quali forme di accettazione c.d. presunta dell’eredità in quanto fatti legalmente tipizzati da una presunzione iuris et de iure, non riescono affatto a ritagliarsi spazio alcuno per risultare operanti: non tanto perché la scissione è vicenda meramente modificativa ma perché l’oggetto della pretesa disposizione non risulta comunque essere qui dato dai “diritti di successione” (ossia: dalla delazione, quand’anche se ne disponga secondo lo schema dell’art. 1542 c.c. sebbene pro quota)[36]. Ad ogni buon conto, qualora si ritenesse in ogni caso applicabile al caso in oggetto alcuna delle fattispecie di accettazione presunta dell’eredità (sulla base della diversa opzione dottrinale che traduce in modo ampio il concetto sintetizzato dall’endiadi “diritti di successione”)[37] e con l’aderirsi alla tesi della natura traslativa della scissione, la pretesa operatività delle citate norme risulterebbe inconferente ai fini della soluzione del caso in oggetto in quanto esse dovrebbero pur sempre dirigersi nei confronti della stessa società (soggetto non chiamato all’eredità) quale ed in quanto persona giuridica autonoma rispetto ai membri che la compongono alla quale ultima risulta formalmente imputato l’atto di scissione.

Ulteriore e diverso è il caso nel quale la vicenda in esame non si esaurisca interamente all’interno dell’asse ereditario perché, per es., la scissa o una delle beneficiarie (e, per esse, le relative partecipazioni) non rappresentano cespiti ereditari: qui si assiste quantomeno ad una modificazione qualitativa della sostanza dei beni compresi nell’asse (partecipazioni in luogo di patrimonio o viceversa) che fà propendere per l’operatività, in capo ai chiamati, di un fenomeno adesivo alla delazione ereditaria.

  1. Analisi della rapporto tra proprietà ed impresa in riferimento alla dimensione gestionale

Si deve ora affrontare il nodo per il quale la Suprema Corte ha ritenuto idoneo, al fine di ravvisarvi un’ipotesi di accettazione tacita dell’eredità (art. 476 c.c.), non solo un atto di disposizione ma anche di sola gestione qualora incompatibile con la volontà di rinunciare e tale da incidere sulla consistenza del patrimonio ereditario[38].

Uno dei problemi di fondo della difficile vicenda in rassegna, tra tutti forse quello più subdolamente scivoloso, è di stabilire quando un atto di gestione d’impresa (avente natura tipicamente dinamico-produttiva) possa rientrare nell’àmbito dell’amministrazione ordinaria ex art. 460 c.c. (avente invece tipicamente natura statico-conservativa)[39]. Problema, quest’ultimo, che si pone tradizionalmente ogni qual volta un chiamato sia coinvolto in una gestione di beni ereditari in sé oggettivamente produttivi per la specifica destinazione impressagli in vita dal de cuius[40].

L’assunto è quello per il quale sotto il profilo giuridico-formale la scissione si struttura in una complessa fattispecie procedimentale che, se sotto il profilo aziendalistico rientra nelle c.d. operazioni straordinarie di riorganizzazione dell’attività d’impresa[41], nella diversa prospettiva civilistica rapportata ai criteri di cui all’art. 460 c.c. ben può (nel rispetto di talune ‘condizioni’) rientrare di pieno diritto nell’area degli atti di amministrazione conservativa ricadenti sul riferito asse (non venendo i valori “impresa” ed “azienda” oggettivamente distratti dalla loro naturale destinazione alla successione causa mortis)[42].

Riteniamo difatti che la disaggregazione dell’impresa caduta in successione possa anche pacificamente risultare funzionale alla conservazione in concreto del valore patrimoniale dell’azienda stessa.

Infatti attraverso un’operazione di scissione avente le precise caratteristiche come sopra specificate (che conducono cioè ad un risultato che ricorda, ma solo descrittivamente, un’operazione in qualche modo divisoria[43]) si riescono ad armonizzare ed a comporre tra loro interessi apparentemente irriducibili come quello ad una continuazione produttiva dell’attività d’impresa (nonostante l’azienda ricada in un’eredità vacante) e quello ad una gestione conservativa dell’asse ereditario (nonostante si compia un’operazione di gestione commercialmente dinamica).

Inoltre per tutta coerenza, in considerazione delle concrete modalità in base alle quali l’operazione è stata modellata, nemmeno si deve ritenere necessaria al compimento della scissione, per come potenzialmente richiesta dal cpv. dell’art. 460 c.c., un’autorizzazione giudiziaria ex art. 747[44] c.p.c. (laddove quest’ultima non è assistita dalla classica ratio di rimuovere un ostacolo all’esercizio di una ‘facoltà’ ma è funzionale ad approntare una maggiore tutela non solo nei confronti dei terzi in punto di certezza dei rapporti giuridici ma anche nei confronti dello stesso soggetto agente in punto di esposizione del patrimonio personale ai debiti ereditari)[45]; dovendo con ogni probabilità risultare diversa la conclusione se, per esempio, le posizioni anche sostanziali degli originari soci venissero ad essere alterate in esito all’operazione di disgregazione aziendale[46]: in tal caso potrebbe ritenersi sussistente l’onere del soggetto agente di emettere ex ante o contestualmente al presupposto contegno un’apposita protestatio[47] (in tal modo scongiurandosi pure il formarsi di un qualsiasi fenomeno di apparenza iuris[48]), quale riserva capace di impedire la ravvisabilità della fattispecie adesiva di natura negoziale[49] di cui all’art. 476 c.c. altrimenti idonea a formarsi per facta concludentia[50] (il tutto a fronte dell’inutilità di una qualsiasi protestatio rispetto invece agli artt. 477 e 478 c.c.[51]).

Qualora poi si riponesse un’incrollabile fiducia nella tesi che supporta una lettura oggettivizzante dell’art. 476[52] c.c. e che ravvisa nell’espressione del voto l’indeclinabile ricorrere di un “atto che presuppone necessariamente la volontà (del chiamato) di accettare (la delazione) e che non avrebbe il diritto di compiere se non nella qualità di erede“, quest’ultimo, sintetizzatasi la volontà nella delibera[53], sarebbe pur sempre un atto dell’organo[54] o (più propriamente[55]) della società[56] o, comunque, della collettività organizzata dei membri[57] essendo esso normativamente riferito recta via, per il tramite dell’accertamento dei risultati della votazione (di regola mediante solenne proclamazione da parte del Presidente dell’adunanza), ad un distinto ed autonomo centro di imputazione di interessi[58].

A fronte del fatto che la medesima legge non si è minimamente preoccupata, nella presente sedes materiae (art. 460 c.c.), di tratteggiare alcuna linea di demarcazione tra atti di amministrazione ordinaria e straordinaria preme ora avanzare che, da una pratica lettura combinata degli artt. 476 e 460 c.c., potrebbe giungersi a ritenere che, al fine di delineare i contorni di quest’ultima disposizione, non si deve aver riguardo tanto alla natura dell’atto o alla struttura dell’effetto giuridico-formale dal primo prodotto, né al risultato economico che può in concreto essere derivato[59], quanto all’idoneità programmatica della vicenda complessivamente intesa a non alterare in peius il sostanziale valore economico della massa ereditaria a far tempo dal momento stesso in cui la prima può dirsi formata (ex art. 456 c.c.)[60]: atti di straordinaria amministrazione devono ritenersi tutti quelli che importano, in via previsionale (ex ante), una fuoriuscita definitiva e finale del diritto dall’asse ereditario o che espongono, quand’anche sulla base di una valutazione prospettica, il patrimonio stesso ad un pericolo effettivo di decremento[61]. Quale ulteriore angolo visuale dal quale si evince il rilievo del concreto piano imprenditoriale sotteso all’operazione de qua (la scissione è infatti operazione che non può risolversi in una mera vicenda divisoria – la quale, se così impostata, avrebbe il solo scopo di eludere illegittimamente la procedura di liquidazione – in quanto essa deve essenzialmente disporre di un sostegno imprenditoriale funzionale ad assicurare una “continuità all’attività d’impresa”).

Al fine di pervenire alla cennata soluzione dell’illustrato caso si è presupposto, di necessità, l’espulsione dall’area delle amministrazioni legali conservative del risalente concetto di atto di ordinaria amministrazione fondato su una conservazione rigidamente giuridica dell’assetto patrimoniale (con ‘piena’ libertà di amministrazione per le sole rendite del capitale – dovendosi pur tuttavia anche in tal caso non fuoriuscire dall’àmbito degli atti comunque funzionali al mantenimento o al miglioramento del patrimonio gerito -)[62], per approdare alla tradizionale e più duttile conservazione in senso economico dello stesso asse ereditario (considerato cioè unicamente sotto l’aspetto del suo complessivo valore economico)[63].

In tal’ultima ottica infatti la scissione, per come concretamente congegnata[64], si rivela atto normalmente funzionale alla conservazione (o anche, perché no, al miglioramento[65]) del patrimonio ereditario conformemente a quanto richiesto dallo statuto dell’amministrazione legale, tenendosi altresì conto che quest’ultima attività gestionale deve pur sempre, per necessità, adattarsi all’ineludibile (poiché ontologica) connotazione economico-produttiva che caratterizza dinamicamente l’amministrazione di un’azienda quand’anche venga limitata alla sola modalità di gestione ordinaria. In ultima istanza ciò che qui rileva è altresì l’aspetto del mantenimento dell’integrità produttiva del valore in gestione[66].

Se dunque sotto l’aspetto ‘societario’ la scissione è in sé atto di straordinaria amministrazione in quanto non rientrante nella normale attività dedotta nell’oggetto sociale[67], in àmbito civilistico essa, così come prospettata (limitandosi cioè ad incidere solo sul mondo delle forme giuridiche senza intaccarne la sottostante sostanza economica[68]), potrà ritenersi atto di ordinaria amministrazione, dimostrandosi così idonea all’effettivo conseguimento di risultati puramente conservativi del valore del patrimonio ereditario (ricorrendo un’omogeneità teleologica tra l’astratta finalità cui risulta improntata l’amministrazione legale e la funzione concreta perseguita dall’atto di diritto del commercio isolatamente posto in essere)[69].

Si potrebbe in questi casi dire che, mutuando dalla terminologia propria del diritto commerciale, la scissione attua lo scopo-mezzo (ossia costituisce lo strumento tecnico) per la concreta realizzabilità dello scopo-fine (economico) consistente nella conservazione del valore dell’asse ereditario.

Ad ogni buon conto, vertendosi qui in tema di S.r.l. (dove, in attenuazione del principio corporativo, l’amministrazione può essere affidata al socio[70]), pare tuttavia fortemente opportuno avvalersi pure della relazione dell’organo amministrativo (ex art. 2506-III, 1° com. c.c.) allo scopo di fare dalla stessa emergere, attraverso un giustificativo ad hoc[71], che la programmata ristrutturazione organizzativa viene concretamente adottata nell’esercizio delle sole facoltà riconosciute al chiamato ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 460[72] c.c. stante la ricorrenza dei relativi presupposti.

In nuce, senza qui sottacere il vistoso profilo di efficienza normativa consentita dall’interpretazione supra evidenziata[73] (secondo il peculiare punto di osservazione fatto proprio e caldeggiato dagli analisti economici del diritto[74]), si consiglia di trasfondere nella citata relazione il risultato dell’attività di vigilanza, quale ed in quanto agere in sé prodromico all’adozione dell’atto di gestione (ordinaria[75]) disaminato nel presente contributo.

  1. Considerazioni conclusive

Per la miglior soluzione del caso in oggetto, pur versandosi in un’area del diritto (quello societario) permeata da un modello riduzionistico reso dal legislatore operante attraverso un’innegabile tendenza della normativa di settore all’imputazione sintetica, si ritiene tuttavia corretto adottare un differente metodo (schiettamente civilistico) informato ad un criterio di decisa analisi analitica al fine di dare così piena ed esatta evidenza al profilo dell’attività posta in essere dalla persona del chiamato. Ciò conduce a sezionare intanto il procedimento di scissione nelle singole fondamentali fasi del voto, della delibera e dell’atto di scissione ed a isolare poi la prima come quella decisiva ai fini della corretta risoluzione del presente studio[76].

Nell’esaminata vicenda procedimentale, infatti, ciò che più rileva ai fini dell’esatta individuazione della fattispecie astrattamente idonea a sollecitare l’efficacia delle norme di diritto ereditario non è tanto la deliberazione in sé considerata (in quanto atto idoneo a rilevare eminentemente nella dimensione corporativa ai fini dell’assunzione degli aspetti organizzativi che dovranno essere concretamente trasfusi nell’operazione societaria de qua) o l’atto di scissione (al quale ricondurre la produzione degli effetti finali)[77] quanto la manifestazione del voto (a prescindere dalla natura che allo stesso s’intenda ascrivere[78]) qualora l’assunzione della decisione favorevole alla scissione (in approvazione del relativo progetto) derivi dall’esercizio marginale[79] del diritto di voto dato dalla partecipazione caduta in successione ereditaria[80].

Per un’esatta appercezione circa l’applicabilità dell’art. 460 o dell’art. 476 c.c. dev’essere tenuto in debito conto quanto in appresso.

L’art. 460 c.c. non comprende gli atti dispositivi in quanto questi ultimi determinano accettazione tacita (ex 476 c.c.), quand’anche migliorativi. Tuttavia si registra altresì l’esistenza di atti non dispositivi che sfuggono alla sussunzione nell’art. 460: si pensi agli atti procedimentali che determinano l’esito della fattispecie complessa in cui risultano essere funzionalmente inseriti e dalla quale ultima, complessivamente riguardata, deriva un effetto dispositivo quand’anche sotto l’aspetto meramente economico.

In altre parole: l’art. 460 comprende, come sopra chiarito, gli “atti a rilevanza non dispositivaeccetto quelli che, benché recanti in sé carattere procedimentale, valgono a determinare l’esito di una fattispecie complessiva (come la delibera di approvazione del progetto di scissione e, per essa, l’atto di scissione) qualora dai medesimi derivi, sotto il profilo economico, un effetto dispositivo. Tal’ultima specie di atti procedimentali (in quanto determinativi dell’esito della relativa fattispecie) si rivela idonea a ricadere nella previsione dell’art. 476 c.c..

Si conferma quindi come l’attività che l’ermeneuta è chiamato ad espletare, in quanto necessariamente guidata da valutazioni strettamente di merito, debba dimostrarsi capace di adattarsi di volta in volta alle specifiche circostanze rinvenibili nel singolo caso concreto. Si possono di massima qui ora configurare le seguenti ipotesi:

  1. i) se i soci-chiamati dispongono già nell’ente di appartenenza della maggioranza dei voti a prescindere dalla partecipazione ricevuta iure hereditatis, l’operazione è praticabile senza che essi si vedano costretti a toccare la delazione ereditaria esistente in loro favore (essi dunque, nel votare, assumono un contegno del tutto incolore rispetto all’eredità).

Potrà al più meditarsi se sia possibile riconoscere ai chiamati-soci di minoranza che non concordano sul tipo di operazione sociale da intraprendere la legittimazione a chiedere un’autorizzazione ad esercitare, per la quota di minoranza del de cuius, il diritto di recesso ex artt. 460 e 2473 c.c. (applicandosi analogicamente il termine di cui all’art. 2437 bis c.c.). La “procedura autorizzativa” si sposterebbe ora sul “piano societario del rimedio” (quivi esperibile anche perché colà tipizzata), risultando pur sempre assicurato a priori il mantenimento di una stabile inerenza all’asse ereditario del bene gerito. In tal’ultima ipotesi il problema cui eventualmente dare una risposta diviene, al limite, quello relativo all’opportunità o meno di contenere l’atto di gestione d’impresa posto in essere dalla maggioranza in modo che non riesca a coinvolgere la quota sociale ereditaria del de cuius: se, quand’anche in sede di vigilanza ex art. 460 c.c., l’operazione de qua viene ritenuta per qualsiasi specifica ragione “pericolosa” per la partecipazione in asse, il giudice potrebbe consentire la liquidazione della quota ereditaria che andrebbe quindi a fissarsi ipso facto in un autonomo cespite del compendio;

  1. ii) se da soli non raggiungono la maggioranza e concordemente votano pure nella qualità di delati utilizzando la quota sociale che faceva capo all’ereditando: nella ricorrenza delle ‘condizioni’ supposte nella predisposizione del caso dedotto ad oggetto del presente lavoro, l’operazione esprimerà quanto supra in narrativa lumeggiato. Se quindi la scissione, complessivamente riguardata, importa un ulteriore effetto dispositivo nel rapporto interno tra i soci-chiamati (attributari), si rientra nel 476 c.c. (salva protestatio); se invece la complessiva operazione implica un mero fenomeno esterno di successione ex lege, nei rapporti interni tra soci-chiamati (assegnatari) si ha un atto conservativo-paradivisorio di ordinaria amministrazione ex 460, com. 2, 1a parte che non necessita, a rigore, di autorizzazione alcuna;

iii) se ciascun socio-chiamato non risulta, singolarmente preso, titolare della maggioranza delle partecipazioni sociali e vi è disaccordo sul contenuto da assegnare alla votazione relativamente alla partecipazione del defunto (la quale quindi varrebbe a conferire al votante, nell’omogeneità contenutistica delle dichiarazioni, la necessaria maggioranza): considerata la modalità di gestione congiunta dei chiamati che non siano nel possesso dei beni ereditari[81] si può pensare ad un’autorizzazione ex art. 460 c.c., stavolta però operante in sostanziale funzione di strumento di risoluzione di un conflitto tra delati in ordine all’oggettiva convenienza di porre o meno in essere un determinato atto di gestione rispetto al quale ciascuno di essi occupa, civilisticamente, un’identica posizione legittimante in ordine all’esercizio di una qual sorta di “ius prohibendi”.

Fermo restando che “se solo uno od alcuni si interessano: possono compiere atti per tutto il patrimonio a meno che non siano chiamati con testamento per quote determinate anche nella composizione [ivi considerandosi i beni rappresentati dalle singole partecipazioni in società di capitali][82]”.

Tuttavia le ipotizzabili situazioni di intreccio tra qualità lato sensu ereditarie e/o sociali ed ancòra di (sotto)combinazioni tra posizioni endo-ereditarie e/o endo-societarie sono a tal punto multiformi da necessitare di apposito, separato, sviluppo in approfondimento qui non consentito ratione loci. Dovendosi sempre tenere presente sullo sfondo la distinzione tra la gestione che compete al delato in quanto tale e quella che gli fà capo in quanto socio quali attività che esprimono, in esse sostanziandosi, differenti profili di soggettività della persona fisica interessata in quanto così piaccia riferirne[83].

Avv. Luca Crotti

[1] Intesa dalla migliore dottrina romanistica quale condotta tenuta dal chiamato (nel godimento – diretto e, per analogia, anche indiretto – del bene ereditario tamquam dominus) idonea a far desumere con chiarezza ed univocità la relativa volontà di accettare la delazione ereditaria esistente in suo favore (cfr. V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 2002, 554 ss.; B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1972, 638; A. Burdese, Manuale di diritto privato romano, Torino, 1998, 679-681).

[2] Si veda, in sede di delibera di scissione, l’art. 2506 ter, 5° com. c.c. che rinvia all’art. 2502 c.c..

[3] In riferimento al dovere di equanime informazione che colora funzionalmente di sé l’attività notarile, v. S. Tondo, Dovere per il notaio di informazione e consulenza, Foro it., 2002, V, rep. Notaio, col. 8.

[4] Non ponendosi qui i problemi relativi ad una giacenza pro quota dell’eredità, peraltro ritenuta apertamente inammissibile dalla recente Cass. n. 2611/2001 (benché per parte della dottrina e della giurisprudenza soprattutto di merito la riferita fattispecie è reputata praticabile, quantomeno nei limiti in cui non operi il diritto di accrescimento tra coeredi). In proposito si rimanda al quadro di riferimento delineato da A. Palazzo, in Le successioni, in Tratt. di dir. priv. a cura di G. Iudica e P. Zatti, I, 2000, 396 ss..

[5] Per un inquadramento dogmatico di tale istituto si rinvia all’opera istituzionale di A. Grosso e A. Burdese, Le successioni, Parte generale, in Tratt. dir. civ., diretto da F. Vassalli, vol. XII, tomo I, Torino, 1977.

[6] Che si assume predisposta nel rispetto dei limiti di liceità tracciati dall’art. 2629, 1° com. c.c..

[7] Il richiamo è al D.Lgs. n. 6 del 17 gennaio 2003.

[8] Due i passaggi che connotano la “polimorfa” operazione di scissione (cfr. O. Cagnasso, Il nuovo diritto societario, in Commentario diretto da G. Cottino, G. Bonfante, O. Cagnasso, P. Montalenti, sub artt. 2484-2548 c.c., Bologna, 2004, 2356):

  1. i) assegnazione di elementi del patrimonio della scissa alle beneficiarie (o anche ad una sola in caso di scissione parziale o per scorporazione); “e”, “in compenso”:
  2. ii) assegnazione di quote o azioni di tutte e ciascuna delle beneficiarie a tutti e ciascuno dei soci della scissa.

Tra le due riferite vicende sussiste, nella dimensione commercialistica, un collegamento funzionalmente necessario in punto di correlazione (senza però che tale connessione assurga, sul differente piano civilistico, a nesso di natura sinallagmatica: da ciò derivando la non ravvisabilità della modalità di cui all’art. 1411 c.c.).

[9] Cfr. F. d’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, Padova, 1989.

[10] Cfr. Cass. n. 6143/2001 (in Giur. comm., 2002, II, 173), Cass. n. 9897/1998 (in Giust. civ., 1999, 741) e Cass. nn. 9349/1997, 833/1994, 7321/1993, 3836/1984; ma v. anche App. Milano 1 giugno 1956, nonché App. Roma 27 febbraio 1952 (in Giust. civ., 1953, 135).

[11] Mancando una fase (estintiva) di liquidazione neppure sarebbe configurabile un fenomeno di “successione mortis causa a titolo particolare [poiché nel solo residuo attivo] per liquidazione”, come pure in passato ha tentato di avanzare illustre dottrina: v. L. Coviello, Osservazioni in tema di estinzione delle persone giuridiche, in Studi in onore di Cicu, I, Milano, 1951, 201 e F. Ferrara, Persone giuridiche, in Tratt. di dir. civ. diretto da F. Vassalli, Torino, 1956, nella nota 1, al n. 112.

Autorevole studioso (dopo aver premesso che la nomina di un liquidatore varrebbe comunque a spezzare inevitabilmente quella continuità che è propria del subentro di una persona ad un’altra in tutti i rapporti giuridici che facevano capo alla prima) ritiene ammissibile una successione tra enti analoga a quella ereditaria (cfr. A. Cicu, Successione tra persone giuridiche, R.T.D.P.C., 1956, 1141 ss.):

  1. a) a titolo particolare (in uno o più cespiti determinati); o anche
  2. b) a titolo universale a condizione però che nel nuovo ente siano conservate, oltre all’analogia di scopo ed all’identità oggettiva dei rapporti giuridici, pure le strutture organizzative dell’ente estinto.

In realtà riteniamo che la surriferita analogia debba giudicarsi come non ravvisabile tanto sotto il profilo della conformazione strutturale delle fattispecie procedimentali messe a confronto quanto, soprattutto, sotto quello strettamente funzionale.

Attualmente, ai fini rituali di cui agli artt. 110 e 299 ss. c.p.c., v’è ancòra chi opta per configurare la scissione totale come successione in universum ius (cfr. C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Padova, 2006, 511, mentre, per la scissione parziale, 514).

[12] Con il confondere, sovrapponendoli, i concetti di trasferimento e di successione (v. A. Burdese, in Grosso e Burdese, Le successioni, cit., 9): v. Trib. Verona 6 novembre 1992 nonché cfr., in dottrina, G. Oppo, Fusione e scissione delle società secondo il D. Lg. 1991 n. 22: profili generali, Riv. dir. civ., 1991, II, 501; A. Magrì, Natura ed effetti della scissione, R.T.D.P.C., 1999, 11 ss.; U. Belviso, La fattispecie della scissione, Giur. comm., 1993, I, 521 ss.; parla di “trasferimento scissionis causaG. Manzini, Trasformazione, fusione, scissione di società, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, vol. 39, collana diretta da F. Galgano, Padova, 1998, 678. Tra gli autori successivi alla riforma: v. A. Picciau, Della scissione delle società, in Commentario alla riforma delle società, Trasformazione, fusione, scissione, sub artt. 2498-2506 quater, a cura di L.A. Bianchi, Milano, 2006, 1031, 1035 e 1045 in nota n. 49 (l’a. parla, gravosamente, di trasferimento che avviene “secondo le regole dell’ordinamento generale”); F. Guerrera, in Diritto delle società, Manuale breve, Milano, 2006, 433; F. d’Alessandro, Fusioni di società, giudici e dottori, in Studi per F. Di Sabato, III, t. I, Napoli, 2009, 279 ss. (per l’a. la vicenda circolatoria, se può ritenersi astrattamente inessenziale in tema di fusione risultando quest’ultima operazione compatibile con la concezione modificativo-evolutiva del fenomeno in quanto si reputa plausibile che l’incorporata non si estingua ma, ‘assorbita’, continui a vivere “dentro” l’incorporante, deve invece riconoscersi come sempre ricorrente nello speculare affare di “deconcentrazione di imprese” integrato dalla scissione – dovendosi altrimenti credere per es. che, in caso di scissione totale, la scissa continui a sopravvivere in ciascuna delle beneficiarie, non risultando altresì applicabile la disciplina di cui agli artt. 2506-bis ss. c.c. -); tra i civilisti: F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 1403.

La tesi dell’efficacia traslativa non riesce a spiegare per esempio, sotto il profilo dogmatico, l’ipotesi di scissione che coinvolge una nuova società beneficiaria: in tal caso “la costituzione dell’ente beneficiario sarebbe determinata dallo stesso effetto traslativo che, per potersi efficacemente dare, dovrebbe invece presupporne l’esistenza” (dagli appunti delle lezioni del Prof. U. La Porta tenute nel corso di diritto societario della Scuola di notariato “Ad maiora” di Milano, 2009).

[13] In àmbito manualistico parla expressis verbis di “modificazione dell’ordinamento socialeG. Ferri, Manuale di diritto commerciale, a cura di C. Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2006, 477 e 489: l’a. esclude che si possa ravvisare un vero e proprio atto di disposizione del patrimonio sociale, dovendosi in ogni caso riconoscere prevalenza all’aspetto organizzativo della vicenda in oggetto per come perseguito attraverso un procedimento rispetto al quale ultimo, gli spostamenti patrimoniali che ne derivano, sono da intendersi quali effetti meramente indiretti e strumentali; cfr. F. Ferrara e F. Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 2006, 977; v. altresì: F. Di Sabato, Diritto delle società, Milano, 2005, 537; Associazione Disiano Preite, Il diritto delle società, a cura di G. Olivieri, G. Presti, F. Vella, Bologna, 2006, 446; G. Presti e M. Rescigno, Corso di diritto commerciale, Bologna, 2007, 671.

Così, contro il configurarsi di una vicenda circolatoria, v. anche F. Galgano, La scissione, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, XXIX, Il nuovo diritto societario, Padova, 2003, 533-534; P. Lucarelli, Scissione e circolazione dell’azienda, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, IV, Torino, 2007, 446 e ss.; M. Tamburini, Della scissione delle società, in Il nuovo diritto delle società, Commentario a cura di A.M. Alberti, IV, sub artt. 2498-2548, Padova, 2005, 2580; E. Civerra, Le operazioni di fusione e scissione, Milano, 2003, 195 ss. e M. Irrera, Scissione delle società, in Dig. disc. priv., sez. comm., XIII, Torino, 1996, 269-270.

Mentre P.G. Jaeger, F. Denozza e A. Toffoletto (in Appunti di diritto commerciale, Impresa e società, Milano, 2006, 588) discorrono invece di riorganizzazione circoscrivendone il concetto nell’area dello “scopo pratico” (quindi, pare, da intendersi quale effetto ulteriore ed indiretto) dell’operazione scissionale (che dovrebbe quindi incentrarsi, se ne deduce, su di un qualche principale ed immediato effetto dispositivo).

[14] Per una panoramica delle questioni più ricorrenti implicate dall’operazione di scissione v. G. Grosso, Rassegna di problematiche in tema di scissione, in Riv. del not., III, 2008, 697 ss.; per gli aspetti di diritto pubblico v. anche G. Casu, L’urbanistica nell’attività notarileCondoni, terreni, parcheggi, Roma, 2008, 24.

[15] Non è a caso se la stessa lettera dell’art. 2506 c.c. si esprime, al 1° com., in termini di assegnazione e non più di trasferimento (come invece recitava l’oramai abrogato art. 2504 septies c.c. nell’evidenziare, in ogni caso, non l’essenza ma la semplice modalità attuativa della scissione). In merito cfr. G.B. Portale, Osservazioni sullo schema di decreto legislativo (approvato dal governo in data 29-30 settembre 2002) in tema di riforma delle società di capitali, Riv. dir. priv., 2002, 718.

Non per niente, in sede di scissione, non si applicano le regole peculiari ai trasferimenti dei singoli beni (come d’altronde traspare dalla stessa Relazione di accompagnamento al decreto legislativo della riforma).

Si veda anche, in tema di cooperative, la rubrica dell’art. 2545 novies c.c. (“Modificazioni dell’atto costitutivo”) in correlazione con il cpv. della norma medesima (ove si tratta della fusione e della scissione).

Per la natura modificativa (oggettiva e/o soggettiva) della scissione, finanche sotto il vecchio regime (e, a maggior coerenza, nell’alveo delle tesi finzionistiche, normative o nominalistiche della persona giuridica), si veda:

  1. a) sub species iuris di mera modifica statutaria (ossia dei contratti sociali delle preesistenti società partecipanti): Trib. Torino 17 agosto 1996 (in , 1997, 420), Trib. Udine 27 settembre 1994 (in Soc., 1995, 227), Trib. Napoli 23 luglio 1993 (in Soc., 1994, 73); e, in dottrina, v. E. Simonetto, Della trasformazione e della fusione delle società, in Commentario cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, sub artt. 2498-2510, Bologna-Roma, 1976, 257, nonché G. Laurini, La scissione di società, Riv. soc., 1992, 925; ovvero
  2. b) quale semplice modifica di struttura dell’organizzazione sociale della scissa (per il caso di beneficiaria/e di nuova costituzione): non si ha un fenomeno di trasferimento di determinati beni comuni ma, rispetto ad essi, di modifica del relativo preesistente regime societario attuata attraverso una separazione ed un’assegnazione di “valori organizzativi” o di “pezzi di organizzazione” (pare che la sublimante forza centrifuga della funzione organizzativa riesca a far degradare a mero valore economico anche la tradizionalmente spiccata individualità del bene giuridico in sé considerato il cui profilo ontologico ne risulta quindi spiritualizzato): v. Ferro Luzzi, La nozione di scissione, Giur. comm., 1991, I, 1065 ss. (la posizione di fondo dell’a., confermativa dell’innata vocazione della dottrina commercialistica a rimodellare gli schemi tradizionalmente elaborati dalla dogmatica del diritto civile, è consegnata all’opera de I contratti associativi, Milano, rist. 2001: quest’ultimo studio rappresenta la fonte della teorica “pancontrattualistica” delle persone giuridiche che ravvisa nel contratto associativo con comunione di scopo lo strumento tipicamente servente alla fissazione delle regole di produzione degli atti d’impresa – da appunti U. La Porta, cit. corso -).

[16] Così, per tutti: G. Cabras, La scissione della società, Foro it., 1992, V, 269; G.B. Portale, La scissione in diritto societario: casi e questioni, Riv. soc., 2000, 481; si esprime in termini di “trasferimento”, benché nell’area della “ristrutturazione e della riorganizzazione aziendale”, G.F. Campobasso, Diritto commerciale delle società, a cura di M. Campobasso, Torino, 2006, 649; Schiano Di Pepe, cit., 2001; P. Dovizia e L. Olivieri, Rapporti fra prelazioni legali ed operazioni di fusione e scissione. Lettura critica del problema fra diritto amministrativo ed attività notarile, Vita notarile, III, 2008, 1703. Nello stesso senso (benché, mutatis mutandis, in materia di fusione) v. Cass. n. 15599/2000.

[17] Cfr. U. La Porta, L’assunzione del debito altrui, in Trattato Cicu-Messineo, 2009, 442-446.

[18] Si veda in tal senso (benché quale indice in sé non decisivo in quanto presente in tema di fusione) la stessa lettera del 1° com. dell’art. 2504 bis c.c.: tale disposizione mette bene in luce che sussiste, “indipendentemente da ogni volontà del titolare diretta al trasferimento, quella relazione di dipendenza obiettiva della situazione dell’acquirente rispetto a quella del titolare originario”, così Nicolò, cit., 612; altrettanto non determinante si deve ritenere la palmare “svista” in cui è incorso il legislatore, al cpv. dell’art. 2506 bis c.c., nell’esprimersi nei termini atecnici di “società trasferente”; sul tanto grave quanto inquietante livello di imperizia che ammorba la tecnica del moderno Legislatore non potrebbero risultare più espliciti G. Bonilini, Patto di famiglia e diritto delle successioni mortis causa, in Studi in onore di M. Comporti, I, Milano, 2008, 314 e P. Ferro Luzzi, La disciplina dei patrimoni destinati, Riv. soc., 2002, 123; d’altronde ulteriore lapsus calami del conditor iuris si rintraccia nella stessa rubrica dell’art. 460 c.c. quando tratta per tabulas dei poteri del ‘chiamato’ in luogo di quelli del ‘delato’: cfr. l’opera di U. La Porta, Il trasferimento delle aspettative, Contributo allo studio delle situazioni soggettive attive, Napoli, 1995, 224.

Pare d’altronde ragionevolmente intuibile come la mancanza di corrispettività tra l’assegnazione del patrimonio della scissa alla beneficiaria e l’assegnazione delle partecipazioni in quest’ultima ai soci della prima rinvenga la debita spiegazione non tanto nella formale non correlatività tra le rispettive sfere giuridiche incise dai consequenziali effetti acquisitivi quanto nella circostanza in base alla quale l’operazione non si fonda minimamente su una reciproca volontà di avvantaggiarsi direttamente attraverso il compimento di attribuzioni patrimoniali incrociate.

Per gli esatti termini del concetto generale di successione si rimanda a U. Carnevali, Successione, profili generali, E.G., XXX, 1993, 1 ss.; sul punto v. anche A. De Cupis, Successione nei diritti e negli obblighi, E.D., XLIII, 1990, 1254-1255 e G. Stolfi, Note sul concetto di successione, in R.T.D.P.C., 1949, 542 (quest’ultimo a. nega tout court la configurabilità di una successione a titolo particolare). Per il fenomeno del trasferimento il rinvio corre ora alla monografia di U. La Porta, Il problema della causa del contratto, La causa ed il trasferimento dei diritti, Torino, 2000, 67 ed ai saggi di S. Pugliatti: L’atto di disposizione e il trasferimento dei diritti, in Diritto civile, metodo, teoria e pratica, Milano, 1951, 5 ss. (per l’a. ogni atto di disposizione è il portato dell’attivazione dell’omonimo potere – resa possibile dalla sussistenza della specifica capacità di agire e dal concreto contenuto oggettivo del diritto che si intende trasferire – per come messo in moto dalla manifestazione di volontà che si forma in esito all’esteriorizzazione dell’atto di decisione psichica) nonché Considerazioni sul potere di disposizione, ul. op. cit., 60 e 61; per l’esercizio del potere di disposizione (consistente quest’ultimo in una ‘facoltà’ ritenuta esterna al diritto soggettivo ed avente struttura potestativa) ricostruito sostanzialmente come negozio di ‘secondo grado’, v. G. Gorla, L’atto di disposizione dei diritti, Perugia, 1936, 6, 11-13 e 17.

[19] In un parallelo che tende ad interessare sistematicamente i fenomeni straordinari di ristrutturazione d’impresa recentemente rinnovati dal Legislatore (trasformazione, fusione e scissione), si potrebbe oggi avanzare che l’art. 1321 c.c. sta al contratto di diritto civile come gli artt. 2498-2506 quater c.c. stanno all’impresa. Infatti una delle più autorevoli voci della dottrina specialistica suggerisce di riallacciare l’essenza dei fenomeni commercialistici de quibus all’esigenza di assicurare una continuità all’attività d’impresa (v. C. Angelici, Introduzione alla riforma delle società, in Liber amicorum, cit., I, Torino, 2006, 14), tanto che la “continuità d’impresa” può ormai definirsi un’endiadi entrata stabilmente a corredare il lessico dell’operatore giuridico (benché, contra, Picciau, op. cit., 1046 e 1047: l’a., evidenziando la valenza empirico-economica del concetto in esame, rileva come lo stesso art. 2506, com. 3 c.c. limiti un’ipotetica continuazione dell’attività d’impresa al solo caso della scissione totale quale vicenda che concreta, per la scissa, un fenomeno estintivo di scioglimento senza liquidazione). In dottrina si registra altresì l’autorevole opinione espressa da P. Spada (Le parole del diritto commerciale, Riv. dir. priv., I, 2009, 10 e 11) per il quale a. l’impresa va pensata “non per quel che è ma per quel cui serve” e quindi “come fattispecie [o] modello di comportamento che [a prescindere dall’inquadramento sostanziale relativo alla sua essenza] presiede all’applicazione di regole” al punto che lo stesso fenomeno societario può oggi identificarsi con il concetto di “impresa entificata”.

[20] Ciò che non si ritiene ravvisabile è proprio una cessione o un’alienazione da parte di un ipotetico dante causa, cfr. F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, 90, R. Nicolò, Successione nei diritti, Nss. Dig. It., XVIII, 1971, 608 e 609, nonché S. Pugliatti, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano, 1935, 96 ss., 102 ss. e 426. In tutta sostanza si sarebbe dinnanzi a quello stesso fenomeno che autorevole dottrina inquadra nell’alveo della c.d. “successione indipendente” (ovverosia non provocata da un atto di disposizione posto appositamente in essere dal titolare), v. G. Gorla, L’assegnazione giudiziale dei crediti, Padova, 1933, 169 e, di recente, La Porta, L’assunzione, cit., 108 e ss..

La stessa previsione di uno strumento di tutela preventiva del credito, l’opposizione (ex art. 2503 c.c. reso operante in forza del rimando di cui all’art. 2506-ter, com. 5 c.c.), depone per l’assenza di un trasferimento e per la ricorrenza, invece, di un fenomeno di separazione patrimoniale (benché nella differente area del fenomeno separatorio oggettivo: v. anche l’art. 2447-quater, com. 2 c.c.).

[21] La legge impone di costituire, nell’atto di scissione (posto in essere dalla scissa), un nuovo ente strumentale al fine di consentire la chiusura dello stesso procedimento in esame.

[22] Accoglie per tabulas il concetto di destinazione la stessa lettera dell’art. 2506-bis, comm. 2 e 3 c.c..

[23] È proprio la causa in concreto che consente alla scissione di realizzare, economicamente, un “proteiforme” scambio (non corrispettivo ma, al più, essenzialmente “compensativo”) di eterogenee “porzioni di organizzazione” tra compagini sociali (arg. ex artt. 2506, com. 1 e 2506-bis, 4° com. c.c.).

[24] Cfr., sul tema, l’illuminante intuizione di P. Spada (Diritto commerciale, II, Elementi, Padova, 2006, 172) per il quale a. “[…] la scissione può comportare o non fenomeni di circolazione della ricchezza imprenditoriale e dell’impresa a seconda che sia, in concreto, influente o non sulla composizione della compagine sociale o sulla ripartizione dei vantaggi e dei carichi” (il discrimen sarebbe dunque rintracciabile, in buona sostanza, nel cambiamento o meno della titolarità del governo della società, dovendosi perciò tra l’altro verificare il peso che i soci della scissa assumono nella beneficiaria).

[25] La congiunzione “e” di cui all’art. 2506, com. 1 c.c. non può ritenersi casuale valendo essa a collegare (sotto l’aspetto aziendalistico) le due vicende prese espressamente in considerazione dalla citata norma, altrimenti da doversi ritenere come del tutto indipendenti l’una dall’altra (diversamente per esempio da quanto avviene, in tema di compravendita, all’art. 1470 c.c. dov’è dato invece rinvenire la preposizione “verso”).

[26] Arg. ex U. La Porta, Azione di riduzione di “donazioni indirette” lesive della legittima e azione di restituzione contro il terzo acquirente dal “donatario”. Sull’inesistente rapporto tra art. 809 e art. 563 c.c., Riv. Not., 2009, 961.

[27] Nella complessa vicenda (che discende da un giudizio cd. illativo: cfr. N. Irti, Princìpi e problemi di interpretazione contrattuale, R.T.D.P.C., 1999, 1164) la dottrina ravvisa un’ipotesi di collegamento negoziale genetico: A. Venditti, Appunti in tema di negozi giuridici collegati, Giust. civ., 1954, I, 266.

[28] Non è certo un caso se la disposizione in esame torna qui a parlare in termini di “attribuzione” delle partecipazioni (e non più di “assegnazione” delle stesse come invece fa, per la scissione proporzionale, l’art. 2506, 1° com. c.c.).

[29] Cfr. Picciau, op. cit., 1049 (l’a. parla di “nuovo momento contrattuale a valenza novativa rispetto a quello che ha dato luogo all’originaria costituzione della scissa” giustificato da un evidente “favor per le esigenze di riorganizzazione”).

[30] V., infra, alla nota n. 37.

[31] Cfr. La Porta, L’assunzione, cit., 445.

[32] Non per nulla non è richiesta la relazione degli esperti (cfr. art. 2506 ter, 3° com. c.c.).

[33] Con ogni probabilità le presenti considerazioni risulterebbero invece cedevoli nell’ipotesi, per esempio, di scissione con determinazione del rapporto di concambio tra le partecipazioni: in tal caso, quand’anche anche il concambio risulti essere determinato all’esito di un mero calcolo matematico, è la stessa possibilità di riconoscere natura conservativa all’operazione de qua che risulterebbe minata alla radice.

Identicamente dicasi per il caso in cui dalla scissione (modifica della forma) derivi un diverso e più attenuato regime di autonomia patrimoniale in relazione al patrimonio assegnato alla società beneficiaria (modifica in peius della sostanza), si ponga mente all’ipotesi di scissione eterogenea regressiva o, ancòra, si immagini l’ulteriore evenienza della costituzione di una società tra i due unici delati attraverso conferimento di attivo ereditario.

[34] Sin dalla stessa rubrica emerge come il relativo fenomeno considera l’effettivo intento del soggetto agente in quanto diversamente, a ritenersi rilevanti unicamente elementi di stampo oggettivo, la citata disposizione avrebbe dovuto meglio intitolarsi come ”accettazione implicita”.

[35] Il discrimen della distinzione tra gli artt. 476 e 460 c.c. sta nella circostanza che gli atti contemplati dall’art. 476 c.c. si ricavano attraverso lo sviluppo di un metodo argomentativo che opera a contrario sensu, venendo cioè essi ad essere identificati con quelli funzionalmente non sussumibili nel disposto dell’art. 460 c.c. (cfr. Cass. n. 12753/’99). Con ciò volendosi intendere che se il chiamato ha compiuto atti in funzione conservativa e non eccedenti l’ordinaria amministrazione (quindi ex art. 460) non è prospettabile un’ipotesi di accettazione tacita, così rimanendo la qualità dell’agente ferma a quella di chiamato; se invece l’agire del delato ha valicato i suddetti limiti causali (mediante il compimento cioè di un atto a rilevanza dispositiva), egli potrà aver assunto la qualità di erede in quanto soggetto tacitamente accettante.

In tutta sostanza: se il delato agisce nei limiti concessi dall’art. 460 c.c. è esclusa per definizione l’operatività della disposizione codificata all’art. 476 c.c.. Si vedano sul punto i contributi di G. Azzariti, L’accettazione dell’eredità, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, V, Torino, 1997, 156, di A. Palazzo, Successioni (parte generale), Dig. disc. priv., sez. civ., XIX, Torino, 1999, 151 e di Saporito, cit., 209 e 210.

Dall’àmbito di operatività dell’art. 476 c.c. viene concordemente esclusa, tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza, una vasta rassegna di ipotesi (poiché rientranti nel differente alveo delineato dall’art. 460 c.c.) nella quale si annoverano, qui ora a titolo meramente esemplificativo:

  1. a) la denunzia di successione in quanto atto in sè giuridicamente obbligatorio (cfr. Cass. n. 6574/2005; Cass. 12 gennaio 1996 n. 178; Cass. n. 2711/1996 in civ., 1997, I, 521; Cass. 19 dicembre 1978 n. 6103; Trib. Cagliari 20 maggio 1994), valendo essa, al più, come mero elemento indiziario liberamente valutabile dal giudice presso il quale è stato incardinato il procedimento;
  2. b) la presentazione della dichiarazione ai fini dell’imposta di successione (v. Cass. 28 febbraio 2007 n. 4783; Cass. 13 maggio 1999 n. 4756; Cass. n. 2711/1996; Commiss. trib. I grado Trani, 28 giugno 1989);
  3. c) la richiesta di pubblicazione del testamento (v. Trib. Venezia 4 gennaio 1982);
  4. d) la richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione (cfr. Trib. Firenze 20 febbraio 1993);
  5. e) la partecipazione del chiamato ad una trattativa con gli altri chiamati all’eredità in ordine alle modalità della divisione ereditaria (a pronunciarsi è sempre il succitato Trib. Venezia 4 gennaio 1982);
  6. f) la mera immissione nel possesso di beni ereditari (cfr. Cass. n. 178/1996);
  7. g) la vendita di alcuni mobili del compendio ereditario effettuata dal chiamato per far fronte ad una propria esposizione debitoria (v. Cass. 28 febbraio 2007 n. 4783);
  8. h) l’esercizio della legittimazione processuale passiva nel comparire in giudizio (v. art. 486 c.c.).

Non così (quali fattispecie ritenute perciò rientranti nell’art. 476 c.c.):

  1. a) la voltura catastale di immobili appartenenti al de cuius – data la valenza anche civilistica di quest’ultimo atto per l’accertamento semplice della proprietà che può derivarne – (v. Cass. 29 marzo 2005 n. 6574 e Cass. 12 aprile 2002 n. 5226);
  2. b) il conferimento di procura a vendere cespiti ereditari (v. App. Torino 30 ottobre 1989);
  3. c) la riscossione di un assegno rilasciato al de cuius (cfr. Cass. n. 12327/1999);
  4. d) la domanda di divisione e l’adesione alla stessa da parte dei coeredi dove concreti una proposta negoziale e non anche se si traduca in generiche sollecitazioni (v. Trib. Roma 20 aprile 2000);
  5. e) la proposizione da parte del chiamato dell’azione di regolamento di confini (cfr. Cass. 12 novembre 1998 n. 11408) in quanto atto eccedente la mera gestione conservativa dei beni dell’asse ereditario;
  6. f) la presentazione di un’istanza di condono fiscale poiché assimilabile ad una proposta (programmaticamente dispositiva) di transazione (v. Comm. trib. centrale, 6 ottobre 1999 n. 5738);
  7. g) il possesso su un bene ereditario, da parte di un chiamato all’eredità, prolungato nel tempo (cfr. P. Cagliari 8 marzo 2000);
  8. h) il ricorso alla commissione tributaria contro l’avviso di accertamento ed il successivo concordato (v. Cass. nn. 4414/1999 e 5463/1995);
  9. i) la partecipazione del chiamato (sia pure in contumacia) a due giudizi concernenti beni del de cuius benché lo stesso chiamato abbia informalmente dichiarato per iscritto il proprio disinteresse alla lite (v. Cass. 8 giugno 2007 n. 13384 – in quanto tale contegno sarebbe incompatibile con la rinuncia tardiva, condizionata all’esito della lite -);
  10. l) la costituzione di parte civile (compiuta dal chiamato) nel giudizio penale inerente a delitto di frode processuale perpetrato in danno del de cuius (cfr. Cass. 14 maggio 1977 n. 1938, in civ., 1977, I, 133.

Sull’operatività dell’art. 476 c.c., pure per il tramite offerto dall’art. 479 c.c., si rinvia a Cass. 23 febbraio 1985 n. 1628. Per ulteriori casi si rinvia alle pagine di G. Bonilini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2005, 86; nonché a N. Di Mauro, L’accettazione tacita o per facta concludentia dell’eredità, in questa rivista, 2005, VI, 428 ss. ed a G. Saporito, L’accettazione dell’eredità, in Successioni e donazioni, I, a cura di P. Rescigno, Padova, 1994, 215 alla nota 151-bis.

Gli atti previsti dall’art. 476 c.c. si ritiene possono talora venire individuati meglio attraverso un sistema di verifica a contrariis, ossia che prenda in considerazione la congruenza dell’atto medesimo con la volontà di non accettare.

Fermo restando che la ragionevole configurabilità di un’interpretazione alternativa rispetto a quella che conduce ad individuare una volontà di accettare vale di per sé ad escludere l’applicazione della norma in esame (non potendosi dire in tal caso delineata in modo univoco l’effettiva volontà assuntoria della qualità di erede: v. Cass. 17 ottobre 1978 n. 4639).

[36] Delazione da farsi coincidere con i “diritti del chiamato”, ossia con il “diritto di accettare l’eredità o [con] la titolarità della eredità stessa” (così Burdese, cit., 285). Gli atti compresi negli artt. 477 e 478 c.c. non rientrano quindi nella previsione di cui all’art. 476 c.c. in quanto i primi non presuppongono una volontà di accettare bensì quella di “alienare il diritto di accettare senza averlo esercitato”.

In base all’art. 477 c.c. (quale norma contenente indici riconducibili al fenomeno dell’atto di disposizione ‘novativa’ del diritto): ogni atto di disposizione della delazione (quale entità ritenuta sostanzialmente indisponibile da parte dell’autonomia privata – arg. pure ex art. 458 c.c. in relazione ai patti successori c.d. istitutivi/confermativi/costitutivi che si pongono nell’area della delazione pattizia mortis causa -) importa l’operare di una presunzione legale assoluta di accettazione (come tale insuscettibile di essere superata da prova contraria: trattasi di mero atto giuridico essendone gli effetti, in toto, indeclinabilmente preordinati dalla stessa legge).

Si registra tuttavia l’opinione di una parte della dottrina che, senza però così riuscire più a distinguere convincentemente tra gli artt. 476 e 477 c.c., inquadra le ipotesi di cui all’art. 477 c.c. come casi tipici di accettazione tacita dell’eredità (v., tra gli altri, F. Zabban, Delle successioni, in Comm. Ipsoa – F. Zabban, A. Pellegrino, F. Delfini, Milano, 1993, 59 e C.M. Bianca, Diritto civile, II, La famiglia e le successioni, Milano, 2005, 608-609).

Infine dottrina piuttosto isolata qualifica l’art. 477 come peculiare tipo di acquisto ex lege dell’eredità (dove mancherebbe proprio una qualsivoglia forma di accettazione, operando invece esclusivamente una sanzione di matrice legale “comminata a titolo di pena”): così F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, 1962, 374 (la tesi, non certo peregrina, dovrebbe ritenersi plausibile se si concordasse con la ricostruzione dell’a. che intende per “diritti di successione” solo quelli attualmente connessi alla posizione di delato in sé considerata e non anche quelli direttamente ricadenti sui beni ereditari non ancòra in titolarità del delato stesso: essa, di fatto, perviene ad accomunare la citata norma alle fattispecie disciplinate dagli artt. 485 e 527 c.c.).

[37] Così è per G. Giacobbe, Cessione di eredità, E.D., VI, 1963, Milano, 907 (i “diritti di successione” sarebbero rappresentati dalle singole situazioni che formano la massa ereditaria).

[38] V. Cass. n. 1021/1976.

[39] La società di cui si tratta, sebbene la si riguardi sotto il profilo del diritto successorio, non è “cosa morta” (inorganicità che dovrebbe invece ritenersi sussistente per qualsiasi altro cespite ereditario improduttivo) ma rappresenta, una volta riconosciuta l’unità organica aziendale ad essa sottesa, un “pezzo di patrimonio funzionante”: A. Cicu, La divisione ereditaria, Milano, 1948, 7.

[40] Si fà qui integrale richiamo alle fondamentali monografie di U. Natoli, L’amministrazione dei beni ereditari, I, L’amministrazione durante il periodo antecedente l’accettazione, Milano, 1947 e di F. Corsi, Il concetto di amministrazione nel diritto privato, Milano, 1974 (tale a., per discernere, utilizza il criterio c.d. della ‘normalità’ da rintracciarsi nel rapporto intercorrente fra la funzione in concreto dell’atto posto in essere e lo scopo dell’amministrazione).

[41] V. F. Zabban, Le considerazioni del notariato in tema di operazioni straordinarie, in La riforma del diritto societario, Milano, 2007, 222. Nonché, per la giurisprudenza, v. Cass. nn. 4856/1995 e 10229/1997.

Più in generale, ma pur sempre limitatamente al settore societario, Albanese (op. cit., 1152-1155) distingue tendenzialmente tra ordinaria e straordinaria amministrazione sulla scorta della “pura volontà sovrana delle parti [soci]” (ovviamente manifestata in sede statutaria in quanto trattasi pur sempre di un tipo di amministrazione convenzionale).

[42] Per una consistente parte della dottrina, nell’analisi, dovranno altresì essere tenute in debito conto pure le concrete dimensioni dell’impresa di riferimento: cfr. A.M. Ferretti, Amministrazione ordinaria e straordinaria (atti di), E.G., II, Roma, 1998, 3. Non si avverte tuttavia di come risulti pesantemente violato, nell’adozione di questo metro di valutazione, l’art. 3 Cost. per discriminare detto criterio tra asse ed asse in riferimento ad un medesimo tipo di operazione gestionale (rischiando di risolversi il conseguente giudizio in una quanto mai scomoda discriminazione socio-economica).

[43] Cfr. Di Sabato, op. cit., 537.

Nel caso di specie si attua una mera ‘separazione’ (oggettiva e non transattiva) del (solo) patrimonio della società Alfa senza che ricorra anche una ‘divisione’ (soggettiva) della compagine sociale (la quale quindi, nella struttura dell’ente beneficiario Beta, resta identica a quella originariamente presente nella scissa).

[44] L’autorizzazione è provvedimento che sottende un “esame preventivo dell’atto progettato sotto l’aspetto della legittimità e del merito”, v. A. Jannuzzi, Lineamenti di una teoria degli atti di volontaria giurisdizione, Riv. not., 1970, 90.

Per l’esatta individuazione del Giudice competente: cfr. G. Bonilini, Nozioni di diritto ereditario, Torino, 1993, 49.

[45] La sanzione dell’annullabilità qui non opera (non trattandosi di dover integrare un potere minus quam perfectus) in quanto già dispongono specificamente gli artt. 476 e 477 c.c..

Si aderisce alla tesi in base alla quale il chiamato è potenzialmente investito della legittimazione al compimento di qualsiasi tipo di atto eccedente l’ordinaria amministrazione: cfr. Natoli, cit., I, 210 e F.S. AzzaritiG. MartinezG. Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Pavona, 1979, 27 alla nota n. 1; contro: Burdese, in Grosso e Burdese, cit., 155.

Sugli effetti conseguenti all’assenza di autorizzazione, v. L. Bigliazzi Geri, U. Breccia, F.D. Busnelli, U. Natoli, Diritto civile, IV, Le successioni a causa di morte, Torino, 1996, 37.

[46] Il problema risulta particolarmente evidente tanto nel caso di scissione in favore di beneficiarie già esistenti con soci differenti rispetto a quelli della scissa quanto nel caso di distribuzione non proporzionale delle partecipazioni.

[47] Per la natura negoziale della fattispecie adesiva sottesa all’atto di cui all’art. 476 c.c. v. L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, III, Napoli, senza data, 96 ss. e 109 ss.; Azzariti, op. cit., 154; L. Ferri, Successioni in generale, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, sub art. 456-511, Bologna-Roma, 1980, 242 ss.; C. Giannattasio, Delle successioni, disposizioni generali, successioni legittime, in Comm. cod. civ., I, Torino, 1959, 112 (ad argomentare in modo differente si dovrebbe approdare alla conclusione che un’accettazione negoziale dell’eredità sarebbe ammissibile solo nella forma espressa); Santoro Passarelli, cit., 136; Palazzo, ul. op. cit., 151 (nonché, id., Le successioni, in Tratt. IudicaZatti, cit., 1996, 249); F.S. Azzariti e G. Martinez, in Successioni per causa di morte, Padova, 1979, 90; Bianca, op. cit., 609; Sacco, cit., 160; A. Balzano, Requisiti e struttura dell’accettazione tacita di eredità, Giust. civ., 1997, 224; Gazzoni, op. cit., 451. Tuttavia riteniamo che l’efficienza dell’accettazione tacita non possa prescindere dalla validità dell’atto che la rivela (ma, contra, Cass. n. 434/1977) soprattutto qualora si aderisca a quella posizione di dottrina che, nel sostenere l’operatività del 476 anche in presenza di una fattispecie nulla, ricostruisce il negozio nullo come un mero “quid facti” giuridicamente “inqualificabile” nemmeno se in termini puramente negativi (ult. a., op. cit., 989): ridotto l’atto nullo a fatto meramente naturale, residuerebbe solo un inconsistente animus di per sé del tutto inidoneo a determinare l’effetto dell’investitura del chiamato nella titolarità della massa ereditaria … salvo non si voglia intendere l’art. 476 c.c. come norma di diritto e non, come invece è, di legge (sulla teorica del fatto come norma di se stesso: cfr., funditus, U. La Porta, Globalizzazione e diritto, Napoli, 2005; v., leviter, G. Visentini, Lezioni di teoria generale del diritto, II, Il discorso giuridico, Padova, 2002, 57; quanto alla relazione intercorrente tra fatto e ius positum, cfr. U. Carnevali, Appunti di diritto privato, Milano, 2003, 3). Più condivisibilmente, per l’inidoneità a gessare l’operatività del meccanismo approntato dall’art. 476 c.c. al solo vizio dell’annullabilità, v. Burdese, in Grosso e Burdese, op. cit., 283 e 284.

In giurisprudenza, ex permultis, cfr.: Trib. Parma 6 dicembre 2005, in Corr. Giur., 2007, 95; e Cass. nn. 1735/1955, 3811/1958, 3950/1976, 1906/1977, 5225/1978 e 5688/1988 [in tema di accettazione tacita dell’eredità, trattandosi di interpretazione della volontà del chiamato, si deve aver riguardo più all’animus (volontà) dell’agente che all’atto (produttivo di effetti quand’anche claudicanti) in sé oggettivamente considerato (risolvendosi il tutto in un’indagine di fatto, come tale riservata al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità qualora congruamente motivata e senza errori di logica o di diritto – su quest’ultimo aspetto v. anche la conforme Cass. 22 marzo 1999 n. 2663 -)]; Cass. 17 novembre 1999 n. 12753 (in base alla quale l’immissione nel possesso dei beni ereditari è atto in sé non univoco giacché non presuppone necessariamente in chi lo compie alcuna volontà di accettare – cfr. altresì Cass. 15 febbraio 2005 n. 3018 -) e Cass. 13 febbraio 1987 n. 1585. Sotto il codice previgente, nel senso che “se il chiamato si comporta come effettivo titolare dei rapporti ereditari, la legge desume che egli ha accettato l’eredità (art. 934) e quindi l’effettiva titolarità sarà sostanzialmente una conseguenza dell’accettazione”, v. R. Nicolò, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, Messina, 1934, 33 e 142.

Contra (principalmente sul rilievo formale che una dichiarazione indiretta avrebbe così maggior valore rispetto ad una dichiarazione diretta benché verbale – arg. ex art. 475 c.c. -): P. Schlesinger, Successioni (diritto civile), parte generale, Noviss. dig. it., XVIII, Torino, 1957, 760 (per il quale a. contro il significato oggettivo dell’atto legalmente tipico non sarebbe ammessa prova della mancata volontà di accettare); A. Cicu, Successioni per causa di morte, parte generale, in Tratt. dir. civ. e comm., a cura di A. Cicu e F. Messineo, 1961, 178 (accettazione tacita come mero atto giuridico); Burdese, in Grosso e Burdese, op. cit., 276; D. Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, II, Torino, 1955, 931 (id., Il sistema del diritto privato, rielaborato da A. Liserre e G. Florida, Torino, 1993, 1169-1170); R. Sacco, La parte generale del diritto civile, 1, Il fatto, l’atto, il negozio, in Tratt. Sacco, Torino, 2005, 161; G. Capozzi, Successioni e donazioni, I, Milano, 2002, 160 (nell’accettazione tacita non ha rilievo alcuno la concreta volontà di accettare del chiamato, essendo all’uopo sufficiente un atto che oggettivamente presupponga una volontà adesiva alla delazione); C. Varrone, Ideologia e dommatica nella teoria del negozio giuridico, Napoli, 1972, 276 (che discorre in termini di atto giuridico in senso stretto); G. Saporito, cit., 208 (per il quale a. la volontà di accettare è solo oggettivamente presupposta). Nello stesso senso v. inoltre Cass. 5 novembre 1987 n. 8123.

Per un excursus v. A. Zaccaria, Il rilievo del profilo volontaristico nella qualificazione degli atti dispositivi compiuti dal chiamato in termini di accettazione tacita dell’eredità oppure di sottrazione od occultamento di beni ereditari, Studium iuris, IX, 2007, 976 ss..

[48] Il fenomeno della protestatio è qui ammissibile, pena “inefficacia”, nei limiti in cui l’intento del chiamato non sia quello di aggirare le disposizioni di cui agli artt. 484 e 475, com. 3 c.c. (così C. Romeo, Tratt. di diritto delle successioni e delle donazioni, diretto da G. Bonilini, La successione ereditaria, I, Milano, 2009, 1231 e ss.).

[49] Con i dovuti, consueti, corollari in tema di rilevanza di eventuali forme di incapacità, di possibili vizi del volere nonché di stati soggettivamente rilevanti.

[50] In tal senso, ed in generale sul tema della manifestazione factis, cfr. G. Giampiccolo, Note sul comportamento concludente, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, 778 ss..

Illustre autore rimanda invece alla pseudo-categoria dei negozi c.d. di attuazione (contra: L. Campagna, I “negozi di attuazione” e la manifestazione dell’intento negoziale, Milano, 1958, 238 ss.) dove la volontà non è dichiarata ma (senza cha vi sia alcuna relazione con altri soggetti) istantaneamente attuata, nel suo stesso darsi, attraverso un dato comportamento (cfr. Santoro Passarelli, op. cit., 136 ss. – la cui tesi pare elaborare una qual sorta di negozio perfezionabile per fatti concludenti non recettizi -).

[51] In relazione all’art. 477 c.c., cfr., oltre a Bonilini (Manuale, cit., 85 e 86: protestatio contra factum non valet), Cass. S.U. n. 454/1973 (in Giust. civ., 1973, I, 731) quale sentenza che sancisce l’inconferenza di qualsiasi indagine compiuta dall’ermeneuta al fine di ricercare l’animus del chiamato: l’acquisto dell’eredità è qui considerabile alla stessa stregua di un fatto (irrilevanza dell’elemento soggettivo – fatta salva la necessaria consapevolezza nel chiamato della natura ereditaria dei beni di cui si dispone e dell’esistenza di una delazione attuale in proprio favore; benché, contra, V. Scalisi, La revoca non formale del testamento e la teoria del comportamento concludente, Milano, 1974, 312 -; invece, per la natura comunque negoziale dell’accettazione sottesa all’art. 477 c.c., v. Giacobbe, cit., 906 in conseguenza della superata ricostruzione di una fattispecie complessa risultante dalla somma tra un negozio a causa specifica di un titolato trasferimento accompagnato da un negozio tacito di accettazione). La migliore dottrina ritiene altresì la norma non estensibile per analogia all’alienazione dell’aspettativa di delazione per atto inter vivos, pena nullità determinata dall’impossibilità giuridica dell’oggetto (cfr. La Porta, Il trasferimento, cit., 375).

Per parte della dogmatica la norma attiene a sole fattispecie contrattuali (cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007, 452) non esclusi i negozi strutturalmente unilaterali a rilievo bilaterale, traslativi e di natura dispositiva;

per altra parte (Burdese, in Grosso e Burdese, cit., 285 e A. Fedele, La compravendita dell’eredità, Torino, 1977, 178) la norma comprende invece quei negozi che, quanto ad oggetto, investono l’intera eredità complessivamente considerata (quale universitas iuris), anche pro quota, tanto negli elementi attivi quanto in quelli passivi (per alcuni si ha poi un fenomeno di conversione legale del negozio; per altri di doppio acquisto automatico: l’uno per trasmissione dal de cuius al delato e l’altro per trasferimento dall’erede al cessionario).

La nominalistica distinzione tra accettazione tacita e presunta era altresì nota sotto la vigenza del precedente cod. civ. 1865, cfr. V. Vitali, Dell’accettazione tacita e presunta, in Il diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza, a cura di P. Fiore, Delle successioni legittime e testamentarie, V, Napoli, 1902, 537 e ss..

Quanto all’art. 478 c.c. basti qui il riferimento a Romeo, cit., 1241 e ss..

[52] Il problema è quello di identificare (se si reputa corretto isolarne una) “la vera leva di comando del funzionamento della norma”. Esso viene dalla tradizione diversamente risolto in dipendenza della diversa lettura che si assegna alle due ‘condizioni’ previste dall’art. 476 c.c. (atto che “presuppone necessariamente la volontà di accettare” e che il chiamato “non avrebbe diritto di compiere se non nella sua qualità di erede”), infatti questi ultimi ‘requisiti’ possono teoricamente ridursi:

1) quali diversi angoli prospettici funzionali alla valutazione della ricorrenza di un solo elemento (le classiche due facce di una stessa medaglia):

  1. a) unicamente al primo (ritenuto di natura oggettiva) – essendo il secondo una mera specificazione del precedente (v. Ferri, Successioni in generale, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, sub art. 456-511, Bologna-Roma, 1997, 269) – o
  2. b) unicamente al secondo, stimato in termini oggettivi ( Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, Torino, 1965, 930); oppure ancòra:

2) se essi (per come si ricaverebbe dalla congiunzione “e” del testo di legge) sono invece ritenuti due autonomi elementi (nel senso della sussistenza di una relazione cumulativa, e non quindi alternativa, tra le due succitate ‘condizioni’ si esprimono i giudici di legittimità, v. Cass. n. 2403/1988 e G. Struppa, Dei requisiti dell’accettazione tacita dell’eredità, Giur. it., 1949, I, 240 ss.) possono ritenersi:

  1. a) entrambi oggettivi (cfr. Cicu, op. cit., 178) o
  2. b) il primo soggettivo ed il secondo oggettivo (v. Giannattasio, cit., 112).

A seconda poi dell’interpretazione che si è assegnata ai due riferiti elementi, ed al nesso tra gli stessi intercorrente, ne discende l’inquadramento dell’accettazione tacita quanto alla sua stessa natura giuridica (se si ritiene che il primo elemento racchiuda in sé una valenza prevalentemente soggettiva allora l’accettazione tende ad assumere rilievo negoziale; se invece la prima ‘condizione’ viene intesa in senso oggettivo – svilendosi così l’elemento soggettivo alla sola volontarietà dell’atto – l’accettazione degrada tendenzialmente a mero atto giuridico).

[53] Sulla natura negoziale della quale si è pronunciato P. Trimarchi, Invalidità delle deliberazioni di assemblea di società per azioni, Milano, 1958, 29, nonché Sacco, cit., 386 e, da ultimo, M. Milli, La deliberazione assembleare, Teoria generale e dogmatica, Milano, 2007, 53 (nel ricostruirla come fattispecie attuativa di un’integrazione o di una modificazione del contratto sociale). Contrario, e per la natura della deliberazione in termini materiali ed unitari di ‘procedimentoperfezionato’ (ossia di atto che si distingue per la peculiare modalità di formazione e non per la relativa produzione effettuale), si mostra P. Ferro Luzzi, Sul problema degli aumenti di capitale deliberati in danno della minoranza, Riv. dir. comm., 1964, 98 e 99; contraria a quest’ultima opinione si dichiara quella dottrina che oppone come la fattispecie procedimentale vale ad individuare il modo di formazione della volontà e non anche la natura dell’atto di delibera (v. I. Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale. Contributo allo studio della tutela costitutiva, Milano, 1998, 523); non dissimile da quella di Ferro Luzzi si appalesa l’impostazione di Angelici (La riforma, cit., 112 ss.): quest’ultimo a., traendo interessante spunto dall’art. 2377, 4° com., n. 2 c.c., qualifica la delibera assembleare come un “fatto formale ed oggettivo” – comunque realizzatosi – idoneo a rilevare esternamente di per sé stesso quale “momento dell’attività sociale” (protetta da superiori esigenze di “certezza e stabilità”) per come risultante dalla proclamazione degli esiti della votazione, come pure risulta dimostrato dalla circostanza in base alla quale anche una delibera nulla produce, proprio in quanto fatto, un’efficacia precaria nella dimensione organizzativa dell’agire associativo (quantomeno fintanto che la prima non venga rimossa da una sentenza costitutiva o da una delibera sostitutiva). Infine, nell’alveo della tradizionale e sotto-ramificata teorica della deliberazione quale combinazione di atti, si rintraccia quella corrente che ravvisa nella delibera un atto giuridico in senso stretto (per la natura della delibera come “atto in sé compiuto e non negozio giuridico“ v. L. Farenga, Sulla natura della sottoscrizione del capitale sociale, Riv. dir. comm., 1997, 469). La tesi tuttavia più diffusa pare quella eclettica che ritiene necessario distinguere di caso in caso per decidere della natura negoziale o meno dell’atto di delibera.

Si dibatte altresì sulla struttura dell’atto di delibera: per alcuni è fattispecie semplice (T. Ascarelli, Note preliminari sulle intese industriali, Riv. it. scienze giur., 1933, 20 in nota n. 1 e A. Donati, La invalidità della deliberazione di assemblea delle società anonime, Milano, 1937, 39 ss.), per altri è atto complesso (F. Carresi, Gli atti plurisoggettivi, in R.T.D.P.C., 1957, 1252 e 1253; B. Scorza, L’eccesso di potere come causa di invalidità delle deliberazioni di assemblee delle anonime, Riv. dir. comm., 1933, I, 657; A. Cavalieri, L’atto complesso nella società commerciale, Verona, 1948, 62 ss.), per altri ancòra è collettivo (Sacco, cit., 380 e G. Sena, Il voto nella assemblea della società per azioni, Milano, 1961, 159), chiudono la serie coloro che la reputano un atto collegiale (A. Fiorentino, Gli organi delle società di capitali. Assemblea – Amministratori – Sindaci, Napoli, 1950, 55 ss., Santoro Passarelli, cit., 211 e 212 e Milli, cit., 62 e 64) quale figura che per un opinabile pensiero (finendo probabilmente con il sovrapporre il procedimento di formazione dell’atto a quello della volontà) risulterebbe idonea a creare addirittura un’autonoma fattispecie tipica (v. F. Migliarese, Atto complesso, E.G., IV, Roma, 1988, 2 – contra, per la corretta appercezione della collegialità come principio di organizzazione del gruppo e non di struttura dell’atto, v. F. Galgano, Repliche in tema di società personali, principio di maggioranza e collegialità, Riv. dir. civ., 1964, 228 -).

È però certo che la supra cennata teoria, di ispirazione germanistica, della deliberazione come combinazione non contrattuale di atti difficilmente riesce oggi a mantenere immutata persuasività innanzi al rinnovato fenomeno della società unipersonale.

[54] Come avanza, benché sempre incidenter tantum, Trib. Roma 29 febbraio 2008 (ined., cit.) nel dissertare espressamente in termini di “volontà dell’organo“. La stessa concezione si ritrova in M. Vaselli, Deliberazioni nulle ed annullabili delle società per azioni, Padova, 1948, 9 nonché in Milli, cit., 58 ed in A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1964, 218, in nota n. 30.

[55] Cfr. Santi Romano (l’a. discorrendo di “individualità” degli organi, quale concetto utile nella dimensione infra-organizzativa per addivenire ad una precisa delimitazione di competenza in relazione all’esercizio delle rispettive funzioni, non riconosce agli stessi distinta dignità soggettiva né, tanto meno, autonoma personalità giuridica), Organi, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, 164, 165, 167 e (in particolare) 146-147.

[56] In tal senso v. Sacco, cit., 386; G. Ferri, Manuale, cit., 315; Carresi, ul. op. cit., 1268 ed App. Milano 30 giugno 2000. Contro: Sena, cit., 184.

[57] Così è per T. Ascarelli, Sulla simulazione in materia di società e sulla simulazione di modificazione statutaria, in Studi in tema di società, Milano, 1952, 221 e per A. Serra, Unanimità e maggioranza nelle società di persone, Milano, 1980, 175.

[58]Tra voto del socio e deliberazione dell’assemblea si suole, tradizionalmente, instaurare una differenza non semplicemente quantitativa, ossia basata sul fatto che la deliberazione consta di una pluralità di voti, ma una differenza di ordine qualitativo: si parla di deliberazione come di una dichiarazione di volontà ulteriore rispetto ai voti che sono occorsi a formarla, ossia come <<volontà della società>>”: cfr. F. Galgano, La forza del numero e la legge della ragione, Storia del principio di maggioranza, Bologna, 2007, 191 e ss. (l’a., tuttavia, si schiera con la tesi della differenza meramente quantitativa tra voto e delibera). Sul punto v. anche S. Pescatore, Sulla fusione e sulla scissione, in Strutture societarie e autonomia contrattuale, Saggi, Milano, 2009, 257.

[59] Tale l’argomento che vizia la ricostruzione (dell’equitativa Cass. n. 6542/1987 e del Trib. Napoli 5 febbraio 1951) sposata di recente da un autore che, se accolta, porterebbe a far operare la tutela autorizzatoria istituzionalmente in funzione postuma di rimedio e condurrebbe altresì a far discendere la ‘natura’ di atto di ordinaria o straordinaria amministrazione dai concreti risultati economici che l’operazione è stata effettivamente in grado di produrre: il riferimento è ad A. Albanese, Gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione (e l’annullabilità del contratto non autorizzato), Contr. e impr., IV e V, 2008, 1141 ss.. Contraria si dichiara correttamente altra dottrina per la quale un “giudizio postumo sull’esito concreto”, come tale, non può che operare sul piano della ‘responsabilità’ in punto di buona o cattiva amministrazione: V. Lojacono, Amministrazione (dir. civ.), Atti di amministrazione, E.D., II, Milano, 1958, 153 e 154.

[60] Così anche quella dottrina per la quale nel concetto di conservazione dell’integrità del patrimonio non si può certo pretendere di mantenere la “conservazione dei beni nella loro identità numerica e qualitativa”: cfr. Lojacono (cit., 160) e Natoli (cit., I, 203) che ritiene di doversi salvaguardare il complessivo valore economico del patrimonio.

[61] Solo un’attività continuativa di gestione d’impresa non è compatibile con il 460 dovendosi a tal fine applicare per il chiamato non possessore l’art. 528 c.c. e per il chiamato possessore, analogicamente, il com. 2 dell’art. 486 c.c..

[62] V. F. Ferrara sen., Gli atti d’amministrazione, in Scritti giuridici (del medesimo a.), I, Milano, 1954, 216 ss.. In tale gessante ottica l’amministrazione ordinaria dei beni-capitale viene di fatto ridotta ad un’attività sostanzialmente statica di custodia. Non è un caso se la teoria, di grandissimo sèguito tanto in dottrina quanto in giurisprudenza (che sul punto ha contribuito a formare un caso di vero e proprio diritto vivente), è oggi ritenuta dagli studiosi gravemente inadeguata ad esprimere tutte le possibili facoltà dell’amministratore (v. Lojacono, cit., 157).

[63] Per tutti, cfr.: L. Ferri, ult. op. cit., 142; Mirabelli, op. cit., 362.

[64] Avrà altresì natura conservativa quell’atto di scissione di una S.r.l. unipersonale posto in essere dal figlio, unico chiamato del socio defunto, mediante il quale la prima viene ‘frazionata’ in due S.r.l. unipersonali, immutato l’oggetto sociale, ‘dividendosi’ i due rami d’azienda preesistenti (in tal modo preservandosi anche l’unità della destinazione aziendale che tiene partitamene avvinte le rispettive entità patrimoniali e dunque anche l’inerente qualità rappresentata dall’avviamento quantomeno oggettivo) con il dislocarli rispettivamente uno a Genova (produzione di pesto) e l’altro a Napoli (produzione di pasta). Affatto diversa rimane, sotto il profilo giuridico, la pura e semplice cessione di rami d’azienda – c.d. fenomeno (sinallagmatico) dello “scorporo”- attraverso la quale si possono realizzare risultati solo meramente analoghi a quelli che invece assicura l’operazione di scissione (cfr. G. Racugno, Lo “scorporo” d’azienda, Milano, 1995 e C. Ibba, Scissione, scorporo e società unipersonali, Riv. dir. civ., 1991, II, 693).

Per il caso poi di scissione dove il valore (reale od economico e non solo contabile) degli elementi patrimoniali attivi assegnati sia inferiore od uguale a quello degli elementi passivi non si pone tanto un problema di conservatività o meno dell’operazione in oggetto quanto di sua stessa giuridica ammissibilità: sul tema v. G.B. Portale, Scissione parziale di società per azioni a favore della “controllante” totalitaria: questioni, B.B.T.C., 1998, 365.

Non osta infine alla ravvisabilità della natura conservativa dell’operazione in oggetto un’assegnazione di patrimonio “realmente” positivo benché “contabilmente” negativo: il vantaggio (per la scissa) e lo svantaggio (per la beneficiaria) meramente contabile non riesce ad incidere sulla sottostante sostanza economica che è la sola da considerare ai fini di decidere sulla ricorrenza o meno dei presupposti di cui all’art. 460 c.c..

[65] Cfr. Natoli, op. cit., 150. V. anche, benché incidentalmente, la (surriferita) Cass. 12 marzo 1994 n. 2430 (per la quale, “in linea generale gli atti conservativi di ordinaria amministrazione sono miranti ad accrescere, senza rischi, la consistenza del patrimonio amministrato”).

Ma v. G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione, III, Milano, 2006, 190 (il quale a., pur ritenendo che il chiamato possa limitarsi ad esaurire le operazioni pendenti al fine di dare continuazione all’azienda dell’ereditando, ritiene tuttavia che non gli sia consentita una “gestione completa dell’azienda con iniziative ed investimenti” pena assunzione, in capo al medesimo soggetto agente, della qualità ereditaria – senza tuttavia precisare le ragioni che valgono a supportare tale netta asserzione: id., cit. 201 e 202 -).

[66] Cfr. F. Mazzacane, La volontaria giurisdizione nella attività notarile, Roma, 2002, 237.

[67] Così fin da App. Napoli 22 dicembre 1954 (in Mon. trib., 1955, 108); ma si veda anche: App. Firenze 21 gennaio 1961 (in Giur. tosc., 1961, 135).

Più di recente, cfr. Cass. 5 maggio 2004 n. 8538 (per la quale nell’oggetto sociale deve ritenersi inclusa “ogni operazione strettamente funzionale all’attività produttiva o mercantile dell’imprenditore” – il riportato dictat si innesta nella materia dei finanziamenti, quali operazioni ritenute strumentali al raggiungimento dello scopo perseguito dall’impresa -). Per tal’ultimo Giudice è dunque da reputarsi ius receptum che, in materia commerciale, la distinzione tra atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione non si gioca in punto di natura dispositiva o conservativa dell’atto (altrimenti, non operando qui un criterio votato all’attuazione di una funzione conservativa, ogni atto dovrebbe qualificarsi in termini di straordinaria gestione): deve infatti ritenersi atto eccedente l’ordinaria gestione quello “estraneo all’oggetto sociale in quanto capace di modificare la struttura dell’ente, giungendo così esso ad incidere sugli elementi costitutivi dell’impresa” (pare dunque evidente la mancata considerazione della mera rilevanza economica dell’atto). Conformi si rinvengono: Cass. n. 8472/1998 (in Foro it., 2000, I, 2938); Cass., ex permultis, nn. 1550/1998, 2674/1997, 4856/1995, 2430/1994, 9296/1994, 5353/1987 (in Foro it., Rep. 1987, voce Società, n. 465) e 1846/1968, nonché G. Ferri, Le società, in Trattato Vassalli, Torino, 1987, 692.

Erra App. Venezia 20 dicembre 1999 laddove adotta, nella sedes materiae propria delle società, (invece che un parametro valutativo focalizzato su eventuali vicende afferenti il profilo dell’organizzazione sociale) un criterio tipicamente civilistico (v. Cass. n. 714/1954) inerente alla rilevanza economica dell’atto: il Giudice de quo ricava la natura straordinaria di un’operazione sociale sulla scorta del criterio dell’idoneità dell’atto ad incidere (evidentemente … in negativo) sulla sostanza del patrimonio (id est: sul capitale e non sul reddito). In realtà “nessuna rilevanza può avere da sola la consistenza economica di un atto, specie se questa venga considerata in riferimento al capitale e non al patrimonio sociale, quando si tratta di attività rientrante nell’oggetto sociale”, laddove “le ripercussioni economiche del predetto atto, qualora la società non risultasse in grado di sostenerne l’onere, rappresentano meri rischi d’impresa” (da Cass. 12 marzo 1994 n. 2430 – già sopra riportata ed emessa in materia di leasing -).

[68] In parte così è anche per A. Trabucchi, Amministrazione (atti di), N.N.D.I., I, Torino, 1964, 545 e 546.

[69] Cfr. Cass. 10 luglio 1968 n. 2413, in B.B.T.C., 1969, II, 216.

[70] V. G.E. Colombo, Amministrazione e controllo, in Riunioni di studio sulla riforma delle società (tenute dal Consiglio Notarile di Milano, Novembre 2002 – Marzo 2003).

[71] Cfr. Trib. Brescia 11 marzo 1998.

[72] Tra le molteplici e, pare, plausibili motivazioni da porsi a sostegno dell’operazione si potrebbe per esempio addurre che: “Si predispone un riassetto dell’attività d’impresa al preciso scopo di soddisfare le attuali necessità di tenuta dell’ente sul mercato di settore, mercato che in previsione non offre gli stessi margini di stabilità fino ad oggi invece assicurati. Il tutto pure in considerazione del fatto che l’operazione si ritiene idonea ad integrare finanche gli estremi di un’autentica spinta verso un effettivo potenziamento delle capacità economiche del patrimonio sociale interessato”.

Tale intento certamente conservativo può anche essere dimostrato per implicito, verbicausa, dalle seguenti circostanze: a) che non viene oggettivamente accresciuta l’entità del rischio d’impresa (anche se solo nella dimensione prettamente economica); v., benché in tema di trasformazione, Trib. Napoli 18 luglio 1961 (in Foro pad., 1961, I, 108);

  1. b) che in esito alla scissione non viene riservato un trattamento difforme a particolari soci rispetto ad altri;
  2. c) che l’impresa unitariamente condotta comporti gravi costi di gestione divenuti attualmente non più sostenibili; .

[73] Non essendosi in presenza, a rigore, di un c.d. casus legis.

[74] V. F. Denozza, Norme efficienti, L’analisi economica delle regole giuridiche, Milano, 2002.

[75] Per la ratio cui sottostà ed obbedisce l’art. 460 c.c. (che, di fondo, è poi quella di non lasciare abbandonato a se stesso un patrimonio che risulta, per il venir meno del suo naturale titolare, temporaneamente adespota).

[76] La delibera viene altresì ricostruita come il portato di una pluralità di distinti negozi di voto la cui individua efficacia è semplicemente condizionata al raggiungimento del dato quorum decisionale: v. P. Verrucoli, Il superamento della personalità giuridica delle società di capitali, Milano, 1964, 66 e S. Gatti, La rappresentanza dei soci in assemblea, Milano, 1975, 44.

[77] L’atto di scissione non è certo un atto del chiamato (G. Ferri parla, benché in tema di atto di fusione, di “negozio corporativo che si pone tra le società”, in Foro it., 1950, 410).

[78] Superata l’antica ricostruzione della manifestazione di voto in termini di mera dichiarazione di scienza (v. A. Candian, Nozioni istituzionali di diritto privato, Milano-Varese, 1960, 109, quale tesi che, evidentemente, si sorreggeva sull’ormai sconfessato dogma del diritto soggettivo inteso come ‘potere della volontà’);

resistendo ancòra oggi diffusamente la recessiva teorica del voto come manifestazione di volontà a rilievo negoziale (cfr. L. Mengoni, Appunti per una revisione della teoria sul conflitto di interessi nelle deliberazioni di assemblea della società per azioni, Riv. soc., 1956, 460; T. Ascarelli, Interesse sociale e interesse comune nel voto, R.T.D.P.C., 1951, 1165; id., L’interesse sociale nell’art. 2441 cod. civile. La teoria dei diritti individuali e il sistema dei vizi delle deliberazioni assembleari, in Riv. soc., 1956, 104 e 110; Sena, cit., 40 ss.; F. Galgano, Il nuovo diritto societario, in Tratt. di dir. comm. e di dir. pubb. dell’econ., XXIX, Padova, 2003, 214; id., Delle persone giuridiche, in Commentario del Codice civile a cura di Scialoja e Branca, sub artt. 20-22, Roma-Bologna, 1969, 286 in nota n. 8; Milli, op. cit., 42 e R. Sacco, Il fatto, L’atto, Il negozio, in Tratt. di dir. civ. diretto da R. Sacco, I, La Parte Generale del Diritto Civile, Torino, 2005, 386; la qualificazione ontologica non muta anche qualora l’esercizio del diritto di voto venga concretamente inquadrato nella fase esecutiva del rapporto sociale: in quest’ultimo senso v. P. Rescigno, Appunti sulle “clausole generali”, Riv. dir. comm., 1998, 4);

la dottrina più recente tende invece ad orientarsi nel senso di riguardare il voto in termini di atto giuridico in senso stretto (cfr. Ferri, ul. op. cit., 314);

laddove, invece, nella prospettiva istituzionalistica, il voto (assieme a tutta la procedura deliberativa) risulta degradato a rivestire un ruolo di mero elemento fattuale (venendo così esso in qualche modo assimilato ai fatti ad evento psichico, spirituale o interno che altro non sono se non quelli aventi, a rigore, sede propria ed esclusiva “in interiore hominis”: v. F. Carresi, I fatti spirituali nella vita del diritto, R.T.D.P.C., 1956, 420, 424 e 425), al più rilevando in termini di esercizio di una potestà quale potere attribuito a ciascun socio per il doveroso svolgimento di un qui superiore interesse altrui (ossia della c.d. impresa in sé o dell’autonoma persona giuridica);

tendenzialmente, nel decostruire la classica connotazione della votazione con il proporla in termini di mero fatto (benché su presupposti del tutto diversi da quelli posti alla base della citata teoria istituzionalistica), anche Ferro Luzzi (ul. op. cit., 62 in nota n. 164) e, nella sostanza, Angelici (La riforma, cit., 113 ss. e 142 ss.);

residuano infine le opinioni ibride che ravvisano nel voto, a seconda del contenuto concreto della deliberazione, talune volte una dichiarazione di verità tal’altre di volontà (cfr. P. Greco, Le società nel sistema legislativo italiano, Torino, 1959, 261 ss.; A. Graziani, Diritto delle società, Napoli, 1959, 341 e 342) e quelle equivoche visioni frammiste che nella manifestazione di voto percepiscono elementi di scienza commistionati, in uno, a profili negoziali (v. Messineo, op. cit., I, 1957, 457);

senza considerare coloro che, rinunziando a qualificare la natura del voto, scelgono di incentrare l’attenzione sulle relative peculiarità procedimentali nonché sulla qualità degli interessi coinvolti, in tal modo proponendo soluzioni che poco persuadono (cfr. R. Sacchi, L’intervento e il voto nell’assemblea delle s.p.a., Profili procedimentali, Torino, 1990, 220: il punto di approdo è quello di ritenere che, considerata la lacuna legislativa, i problemi attinenti ai profili della capacità di agire devono essere disciplinati statutariamente).

[79] Si precisa, attraverso la seguente definizione stipulativa, come l’accezione che deve qui ritenersi propria del termine “marginale” non è quella tipicamente assunta nella comune parlata di ‘irrilevante’ bensì quella propriamente tecnica, dovendosi dunque trattare di un voto che vale a determinare il margine necessario per l’assunzione della delibera in questione (i.e. essenzialità ai fini del superamento della prova della resistenza).

Qualora invece il voto espresso dal chiamato non fosse determinante (nel senso appena supra precisato) un problema in termini di applicabilità dell’art. 460 c.c. o dell’art. 476 c.c. non potrebbe giammai fondatamente porsi: diversamente argomentando si correrebbe tra l’altro l’inaccettabile rischio di dover considerare come accettante (implicitamente o presuntivamente che sia) pure il socio-chiamato che ha concretamente espresso voto negativo o che si è astenuto o che, addirittura, è risultato assente. È infatti fuori di dubbio che il voto possa pure assumere un contenuto negativo.

Dinnanzi ad una delibera c.d. ‘negativa’ parte della dottrina ritiene che sussista ugualmente un atto a rilievo organizzativo (dato che una maggioranza sussiste comunque) anche se inefficace (derivandone rilevanza dal fatto di contribuire all’esaurimento dell’ordine del giorno) mentre, per altra corrente, si tratta di un caso di inesistenza della deliberazione (quale pseudo-categoria invece ritenuta da parte dell’inedito Trib. Roma 29 febbraio 2008, a torto, integralmente assorbita dalla disciplina codicistica post riforma societaria: come si è invece premurata di sottolineare autorevole dottrina l’inesistenza, quale ‘categoria’ logica, è fenomeno in sé insopprimibile da parte del dato normativo che al più può limitarsi a definirne, rimodellandoli, i contorni – v. C. Angelici, La riforma delle società di capitali, Lezioni di diritto commerciale, Padova, 2006, 132 -).

[80] Sempre più massiccia si presenta in dottrina la tesi per la quale la volontà del socio-chiamato, nell’esercitare il diritto di voto, si limita ad esprimere l’intenzione di prender parte, contribuendovi, al ciclo procedimentale di formazione della delibera (così Ferri, Manuale, cit., 314). Ispessisce le connotazioni procedimentali del voto anche L. Farenga, I contratti parasociali, Milano, 1987, 329. In merito, per una regolare valenza in sé ‘non decisionale’ o ‘non determinativa’ (bensì organizzativa) del voto, cfr. anche P. Ferro Luzzi, La conformità delle deliberazioni assembleari alla legge ed all’atto costitutivo, Milano, 1993, 58 e 59 (l’insigne a., nell’alveo di un’oggettiva visione astrattizzante, profila una dichiarazione di volontà, tratta sul terreno pregiuridico, che non è tesa alla produzione del risultato finale dedotto ad oggetto della delibera ma viene ridotta alla ‘intenzione di chiudere il procedimento deliberativo’ laddove poi, coerentemente, l’incapacità ed i vizi della volontà del singolo votante rilevano come mere irregolarità od anomalie del procedimento deliberativo); conforme Angelici, La riforma, cit., 113 e114 (“pare ben difficile porre al centro della vicenda deliberativa le posizioni soggettive dei soci”). Tuttavia, per le “decisioni” assumibili nelle S.r.l. ex art. 2479, 3° com. c.c., l’a. ult. cit. (id., 126-129) riconosce l’individua sussistenza di aspetti di negozialità (rilevanti ai fini di individuare patologie del singolo “consenso” che possono incidere sulla complessiva “decisione” nei limiti della sola annullabilità) che nondimeno si dissolvono, una volta varcato il portale che dal piano statico-strutturale transustanzia la vicenda in quello dinamico-funzionale, nell’avvolgente dimensione organizzativa “metaindividuale” (l’asse portante dell’argomentare viene fondato sul rinvio che l’art. 2479 ter, u.c. c.c. compie all’art. 2377, 4° com., n. 2 c.c.).

Le succitate ricostruzioni paiono collimare, limitatamente a quanto ora dedotto ad oggetto di considerazione, con quella teorica che, ricusando la struttura potestativa del diritto di voto, si dichiarava invece propensa a qualificare tale prerogativa gestionale in più ampi termini di “potere” in quanto riconosciuta al socio anche per la realizzazione dell’interesse ultraindividuale al buon funzionamento della società (v. T. Ascarelli, Sui poteri della maggioranza nelle società per azioni ed alcuni loro limiti, Riv. dir. comm., 1950, 171, nota 3).

Sotto altra luce G. Santini (Le azioni dei minorenni e l’esercizio di voto da parte dei genitori, Riv. not., 1977, 581 ss.) rileva che, contrariamente rispetto a quanto reputato nella prassi societaria dall’esame della quale si evince che “amministrare un’azione, cioè un bene mobile, non equivale ad amministrare l’impresa sociale”, l’esercizio del diritto di voto integra un atto di straordinaria gestione quantomeno nei casi in cui la delibera incida sul capitale e, più in generale, sull’atto costitutivo.

[81] Cfr. Mazzacane, cit., 237.

[82] V. L. Cariota Ferrara, Le successioni per causa di morte, Parte generale – vol. I, tomo IV, Effetti – momento costitutivo, Napoli, senza data, 15, in nota n. 26.

[83] Cfr. F. Alcaro, Attività e soggettività: circolarità funzionale, in Studi in onore di M. Comporti, I, Milano, 2008, 44.

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