“La libertà delle professioni intellettuali”, editoriale, in Libero Osservatorio Del Diritto, 4, 2016

In questo periodo storico, di enormi agitazioni e squilibri socio-economici, un particolare aspetto delle prestazioni intellettuali merita di essere rispolverato e messo in aperta luce per un profilo che, pur risultando oramai dai più trascurato, rappresenta invece, a mio parere, il cuore dell’attività professionale, con particolare riguardo a quella di carattere giuridico.

Tra queste, tipicamente quelle dell’avvocatura e del notariato, su tutte, sono attività da sempre ritenute di particolare pregio (poiché “concettuali”) le quali, prima di essere svolte da uomini che offrono un servizio in autonomia, sono, innanzitutto, libere professioni.

Tuttavia, è “nelle cose”, il declino dei tempi contamina e travolge anche le persone che li vivono.

Non libero dal cliente pare il notaio che autentica le firme di una scrittura privata nonostante lo stesso P.U. abbia espressamente riconosciuto per iscritto, in quel medesimo autonomo atto pubblico steso in calce al patto, di conferire il crisma dell’ufficialità ad un assetto di interessi gravemente difettoso (si rimanda, per ogni riscontro del caso, al dattiloscritto pubblicato nella sezione “novità” del sito della rivista lodd.it).

E identicamente dicasi per l’avvocato, che, prigioniero del mandato, assecondi, in ogni possibile sede contenziosa (stragiudiziale e giudiziale), pretese del cittadino, attive o passive, assolutamente inconsistenti o palesemente erronee in diritto, se non addirittura quando già tali nella presupposta area del fatto.

Invero il professionista intellettuale, anche nei casi in cui svolge la propria attività come dipendente di ‘altri’ (art. 2094, c.c.), non cessa, pur non rivestendo il ruolo di autonomo (poiché stabilmente inserito in un’altrui sistema organizzativo di lavoro), di dover essere libero.

Innanzitutto nelle scelte sul come esercitare un’attività che, verificabile sulla base della conformità a norme tecniche di una certa disciplina (art. 1176, cpv., c.c.), è caratterizzata, per sua natura, dalle particolari conoscenze e abilità di settore che al soggetto si richiede di padroneggiare.

Libero più in generale, nello svolgimento dell’opera, in ordine ad ogni altro aspetto discrezionale che implichi l’intelligere, ossia le capacità mentali della persona di “percepire”, “discernere” e “valutare” nonché di “comprendere” e di formarsi, nella individuazione della miglior soluzione possibile di una certa questione, una determinata idea.

Libertà, in definitiva, di gestione della prestazione nei rapporti con il cliente che neppure può patire vulnus dalla scriteriata abolizione delle tariffe professionali (art. 9, d.l. n. 1 del 24.01.2012 convertito con l. n. 27 del 24.03.2012).

È nota la tradizionale difficoltà di stima delle operae liberales (proprio perché beni immateriali), com’è noto che, per questo motivo, le stesse prestazioni liberali sono oscillate, sin dal loro nascere, nell’equivoco che le vedeva remunerabili più attraverso una ‘regalia’ del cliente (da qui il termine honorarium) che non mediante un pagamento corrispettivo (e questo, per lo meno, sino all’introduzione del vigente art. 2233, c.c.).

Ebbene il venir meno del tariffario professionale riapre al grave fraintendimento per cui sia corretto omologare e appiattire una sull’altra, in spregio a qualsiasi scala meritocratica di valori, entità tra loro ontologicamente infungibili: le menti e, per esse, la diversità di intelligenza, che, evidentemente scomoda ai più, si vorrebbe svilire e vedere dissolta nelle mescolanze del volgare mercimonio in cui sguazza il consumatore di oggi.

Sotto il profilo dello ius positum, infine, è d’uopo segnalare che, in conformità a quanto sinora evidenziato in linea teorica, dispongono per la prassi, valorizzando la creazione intellettuale per quello che è, gli artt. 9 e 24 del codice di deontologia forense (classe professionale che tutela ‘interessi’) quando impongono al legale il rispetto del dovere fondamentale di “indipendenza” (la cui violazione, ritengo, è sanzionabile in giudizio alla stregua dell’art. 88, c.p.c.) nonché, per i notai (categoria che attua i ‘diritti’), l’art. 1 dei relativi canoni etico/giuridici, con cui s’intende scongiurare il rischio che la posizione del cliente possa, in qualsiasi modo, compromettere la irrinunciabile “indipendenza” del P.U.

Affinché il cliente, e il danaro di cui questi dispone, non giungano a rappresentare la finalità prima di una professione, quella libera intellettuale, che, pur se nel trasversale caos di una società oramai in vertiginoso degrado anche nei valori di base, deve recuperare ogni dignità e decoro, resistendo alle poderose scosse di questa epoca, nel rispetto della funzione di pubblica utilità che ab intrinseco la connota.

Avv. Luca Crotti

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