“La rilevanza della correttezza nell’esercizio della pretesa creditoria successivo all’accertamento giudiziale del diritto”, in Liber amicorum in onore di Biagio Grasso, Napoli, 2015; id. in Libero Osservatorio Del Diritto, 1, 2015

Il presente contributo è ispirato dalla finalità di offrire utili spunti di riflessione pratica[1] a coloro che, nell’espletamento dell’attività professionale, sono chiamati a curare le entità economiche ‘costituite’ in patrimonio – e, per esse, i rispettivi titolari – nella fase di soddisfacimento del credito riconosciuto come esistente da un provvedimento dell’autorità giudiziaria in esito alla definizione di una lite intercorsa tra le contrapposte parti in contesa.

Uno degli aspetti di maggior momento che, potendo venire in gioco nella situazione in esame, meritano di essere analizzati è quello di intendere gli esatti termini del rapporto che intercorre tra il carattere immediatamente esecutivo di una pretesa giudizialmente accertata (ex art. 282, c.p.c.) e la posizione occupata dal creditore, alla luce dell’art. 1175, c.c., quando la condanna del giudicante prevede, per la parte soccombente, l’obbligo di corrispondere un ingentissimo importo pecuniario.

Proprio l’immediatezza alla quale il patrimonio del debitore è esposto nel dover far fronte alla pretesa creditoria (art. 2740, c.c.) è circostanza capace, a prescindere dalla ricorrenza o meno del fenomeno della perpetuatio obligationis[2], di determinare in diritto, nel ricorso delle condizioni indicate nel prosieguo di questo studio, un’ipotesi di temporanea inesigibilità del credito (d’altronde, anche una volta accertato giudizialmente un debito pecuniario da danno risarcibile, residua pur sempre, per il debitore soccombente, lo spazio, prima dell’esecuzione forzata, per un adempimento spontaneo dell’obbligazione, come pure testimonia l’art. 480, co. 1, c.p.c.).

Non è revocabile in dubbio la considerazione per cui anche il principio dello “statim debetur” (art. 1183, co. 1, 1a parte, c.c.) dev’essere letto alla luce della fondamentale regola della correttezza (art. 1175, c.c.) la quale consente al debitore di confidare legittimamente nel differimento necessario, ex art. 1183, co. 1, 2a p., c.c., a metterlo in grado di adempiere con l’esattezza dovuta e richiesta[3].

Se così i principi di correttezza e buona fede[4] si applicano, differendo i tempi dell’esecuzione, alle obbligazioni spontaneamente assunte dal debitore (sul presupposto, desunto dalla mancata fissazione di un termine di adempimento, che questi sia pronto all’attuazione del debito a semplice richiesta del creditore[5]), risponde di certo a buon senso ritenere applicabile lo stesso principio anche a colui che il debito non assume volontariamente ma ne subisce l’imposizione per effetto di una pronuncia giudiziale di condanna. Quello che viene in gioco, pare evidente, è il dovere di salvaguardia dell’utilità dell’altra parte che, nella fase di realizzo del diritto soggettivo, grava sul creditore, quale limitazione, interna[6], della situazione giuridica soggettiva di vantaggio.

Ebbene nelle ipotesi in cui è ragionevole prevedere che l’esercizio della pretesa, immediatamente successivo all’emissione della condanna, esporrebbe oggettivamente (per l’entità del sacrificio da affrontare) il patrimonio del debitore (in quanto soggetto appartenente a una determinata categoria socio-economica) al rischio di annientamento, buona fede e correttezza impongono di ritenere temporaneamente sospesa nel creditore la facoltà di esercitare la pretesa[7], al fine di evitare la causazione della rovina economica del soggetto obbligato[8].

Pertanto, per regola di diritto sostanziale, il credito è inesigibile, e non azionabile in sede esecutiva, ogni volta in cui si deve ritenere, anche in relazione al periodo storico e al luogo nel quale l’obbligazione dev’essere attuata, che qualsiasi debitore, appartenente alla medesima categoria economico-sociale di appannaggio dell’obbligato, sarebbe esposto, per soddisfare immediatamente un diritto del creditore di quello specifico ammontare, al rischio, pressoché certo, di personale dissesto economico-patrimoniale[9]. Si versa in quell’area di ipotesi nelle quali l’attuazione dell’obbligo imporrebbe al debitore di sacrificare i suoi preminenti interessi rispetto alla posizione occupata dal creditore[10], come accade, per esempio, quando la soddisfazione del credito non è funzionale a sopperire ad immediate esigenze primarie di vita del soggetto attivo[11].

Tanto appurato, ossia dimostrata l’esistenza di un interesse debitorio meritevole di giuridica protezione nei limiti sinora esaminati, si tratta nello specifico di verificare quale sia il carattere (reale od obbligatorio) della tutela che l’ordinamento giuridico deve assicurare al soggetto obbligato.

Non è di oggi l’insegnamento per cui la “buona fede”, insieme alla correttezza, è “principio” in grado di incidere sul “modo della prestazione” e per il quale la “inesigibilità della prestazione” è “una sottospecie dell’impossibilità” temporanea (con applicazione estensiva della disciplina di cui all’art. 1256, cpv., 1a p., c.c. ai fini costitutivi della mora debendi), senza che perciò si possa concretizzare alcun effetto liberatorio del debitore dal vincolo di prestazione[12].

Deve quindi ritenersi che l’art. 1175, c.c. è precetto idoneo a conformare la situazione soggettiva giuridica in titolarità del creditore non solo quando il pericolo di lesione per il debitore sfugge al “potere di controllo e di prevenzione di entrambe le parti[13]” ma anche quando, nella complessiva dinamica di un rapporto obbligatorio, le esigenza sostanziali di protezione della sfera giuridica del debitore impongono di individuare uno strumento di tutela dotato del carattere della ‘realità’ (non essendo sufficiente allo scopo l’imposizione, a carico del creditore, di un autonomo obbligo strumentale a contenuto negativo) in quanto l’esercizio di un diritto potestativo, quale quello del creditore munito di titolo esecutivo ad azionare l’espropriazione forzata, può essere efficacemente contrastato solo incidendo sul piano del tempo della sua stessa esercitabilità[14].

D’altronde, anche in virtù del fondamentale principio di solidarietà sociale consegnato dall’ordinamento all’art. 2, Cost. (il cui valore dev’essere osservato con bilatera reciprocità tanto dal debitore quanto dal creditore[15]), è oramai fuori discussione, ricostruito il rapporto obbligatorio come un complesso di reciproche situazioni giuridiche soggettive attive e passive[16] (tale da rendere evidente il superamento dell’antica massima “qui iure suo utitur neminem laedit”), che il dovere di correttezza può anche imporre una restrizione della posizione di obbligo del debitore escludendone, pur se temporaneamente, tutti quei profili di doverosità, tra cui la specifica modalità solutoria rappresentata dalla immediatezza nell’attuazione del debito, in riferimento ai quali la pretesa del creditore si rivelerebbe contraria a quel valore[17]. Non a caso, anche presso i giudici di merito, si trova da tempo consolidata in giurisprudenza l’affermazione secondo la quale “L’intero fenomeno dinamico delle obbligazioni si deve svolgere sul piano della collaborazione e correttezza tra i soggetti[18]”.

I medesimi principi di correttezza e buona fede[19], oltre all’inderogabile[20] principio di solidarietà sancito dall’art. 2, Cost. (pur bilanciato con l’art. 24, Cost.)[21], sono idonei ad influenzare, ora in chiave processuale, la stessa fase dell’esecuzione forzata, che “ha funzione strumentale rispetto al rapporto sostanziale” di cui ne riflette le necessità[22], in conseguenza della struttura dell’obbligazione, formata dal ‘debito’ (quale elemento di matrice sostanziale) e dalla ‘responsabilità[23]’ (quale elemento a rilievo processuale)[24].

Né può darsi alcuna sovrapposizione tra la tutela in esame e quella sottesa dall’art. 351, c.p.c.: quest’ultima norma, invero, fornisce all’operatore del diritto uno strumento, ulteriore, da utilizzare in ipotesi affatto differenti rispetto a quella in esame. Il ricorso per inibitoria, infatti, apre, in sede di appello, un ‘subprocedimento’ che presuppone la sostanziale esigibilità del credito consegnato ad una sentenza asseritamente scorretta della quale s’intende neutralizzare il requisito della immediata esecutività[25].

Né comunque il creditore, che versa nella situazione di inesigibilità in esame, può intanto decidere, in tal modo aumentando le voci di debito esistenti a carico dell’obbligato, di iniziare l’esecuzione, mediante pignoramento (art. 491, c.p.c.), nell’intendimento di piegare la funzione istituzionale dell’espropriazione forzata a finalità, extra ordinem, di carattere cautelativo, in vista della ‘riespansione’ del requisito della esercitabilità del diritto. Il pignoramento infatti, lungi dall’assolvere alla funzione di specificare il bene attualmente dedotto ad oggetto di un diritto reale di garanzia insistente sul patrimonio del debitore[26], non può produrre alcun effetto conservativo diverso e ulteriore rispetto a quelli tipicamente previsti dal codice civile[27] agli artt. 2912 e ss. in quanto il creditore non dispone processualmente di alcuno strumento idoneo a sospendere il processo esecutivo (art. 497, c.p.c.) il quale ultimo, se non mantenuto in vita nel suo naturale progredire funzionale alla soddisfazione del credito, è destinato, di diritto, ad estinguersi (art. 630, c.p.c.). Basti in proposito rilevare che già esistono, sia in àmbito civile (artt. 2900, ss., c.c.)[28] sia in ambito penale (art. 388, c.p.), gli specifici strumenti approntati dall’ordinamento giuridico per garantire appositamente la conservazione delle ragioni patrimoniali in titolarità del creditore[29]. E quanto più durevole sarà il periodo di inesigibilità tanto più sarà pregnante la legittimazione del creditore ad esercitare, medio tempore, i poteri conservativi della garanzia patrimoniale (art. 2740, c.c.), qualora risultino integrati gli indici che giustificano il fondato timore di subire pregiudizio di sorta, fatto salvo quanto sancito dall’art. 1186, c.c.

L’unico strumento, invero, di cui il creditore può disporre, a scopo “cautelativo”, è l’ipoteca giudiziale (artt. 2808, co. 3 e 2818, c.c.). Tuttavia anche tale mezzo, al pari del pignoramento (in ogni sua possibile forma), potrebbe rivelarsi controproducente per lo stesso interesse di colui che lo esperisce: invero, a fronte dell’entità di un debito ipotizzata nel presente studio, l’obbligato (pur sempre vigilato dall’avente diritto nello svolgimento della sua attività negoziale) dovrà essere lasciato in condizione di poter intraprendere e proseguire ogni operazione diretta a reperire quanto dovuto, attualmente non in sua liquida disponibilità, anche attraverso alienazioni immobiliari, pur se in un periodo storico che non ne facilita il realizzo, ma altrettanto certamente più vantaggiose degli esiti di una qualunque iscrizione ipotecaria (e di una qualunque procedura esecutiva iniziata dal creditore a mezzo di pignoramento) che peraltro non avrebbe altro effetto che ostacolare ulteriormente, e definitivamente, ogni possibilità di concreta soddisfazione della pretesa in titolarità della parte giudizialmente vittoriosa.

Il creditore, dunque, dovrà limitarsi a curare una serie di rinnovi dell’atto di precetto, qualora già notificato a ridosso della pubblicazione della sentenza di condanna, al fine di non ostacolare un adempimento spontaneo dell’obbligato. Del resto, per logica prima che per diritto, parrebbe gravemente contraddittorio chiedere al debitore, attraverso l’intimazione contenuta nel precetto, il pagamento spontaneo di una somma di danaro e poi non concedere all’obbligato il tempo utile e necessario per procurarsi la provvista la cui effettiva disponibilità rappresenta l’unico presupposto che renderebbe possibile all’intimato di porre volontariamente in essere lo specifico tipo di attività solutoria richiesta dal creditore. La (pur discutibile) scelta di politica legislativa di rendere immediatamente esecutiva la sentenza già in esito al primo grado di giudizio – scelta tutta funzionale, nelle intenzioni del Legislatore, a ridurre le instaurazioni di gravami sorretti da intenti meramente ‘dilatori’ – non può cancellare l’esigenza di assicurare all’obbligazione, e per essa alle parti che ne determinano le sorti, un fisiologico iter estintivo, pur dopo che il credito litigioso, nell’an e/o nel quantum, sia stato accertato da un soggetto terzo, super partes.

Di regola, disponendosi di beni ipotecabili (con garanzia idonea ad assicurare il primo grado d’ordine tra più ipotetici creditori), occorre, per reperire la provvista necessaria a consentire all’obbligato un adempimento spontaneo, accedere al credito bancario. Tuttavia solo in considerazione del fatto che, medio tempore, non vi sono stati pignoramenti di sorta è possibile al debitore formulare una seria proposta transattiva, facendo fondo alle proprie risorse patrimoniali, e soltanto nel permanere di tali condizioni l’obbligato sarà in grado, adoperandosi in tal senso anche nell’interesse del creditore, di reperire direttamente la provvista utile alla liquidazione delle somme dedotte ad oggetto di condanna: un inatteso pignoramento potrebbe determinare, per esempio, la revoca della delibera bancaria con la quale era stata concessa la disponibilità ad un’apertura di credito ipotecario per un importo tale da consentire almeno la formulazione di una proposta transattiva o di un patto ‘de non exsequendo ad tempus’ (efficace, quest’ultimo, per lo meno sino al passaggio in giudicato della sentenza d’appello)[30].

Il debitore, diversamente, sarebbe esposto a subire danni d’immagine, morali e fisici, oltre che patrimoniali: il repentino pignoramento del conto corrente professionale, o di altre utilità, in titolarità dell’obbligato potrebbe infatti condurre alla paralisi dell’esercizio dell’attività lavorativa, anche con riferimento ai pagamenti dovuti al personale dipendente e/o agli stabili collaboratori di studio. Il creditore, quindi, potrebbe essere ritenuto responsabile di ogni ripercussione che l’azione esecutiva intrapresa nell’imminenza della pronuncia avrà negativamente sull’esercizio dell’attività professionale, tanto più quando condotta ad alti livelli, pubblicamente riconosciuti.

Il creditore è così assoggettato all’attesa del tempo necessario affinché il debitore possa organizzare, ricorrendo a mezzi propri e/o altrui, un programma funzionale ad assolvere al proprio obbligo uno actu ovvero, in alternativa, mediante una pluralità di adempimenti parziali pattuiti con l’avente diritto. Difatti la sola strada che ha il creditore per iniziare a realizzare sin da sùbito il diritto giudizialmente riconosciutogli è quella, collaborando con il debitore nel consentire a questi un adempimento spontaneo, di rinunciare ad avvalersi della facoltà di rifiuto attribuitagli dall’art. 1181, c.c. e acconsentire a rendersi destinatario di una pluralità di adempimenti parziali, a titolo di acconti, secondo un piano di rientro scandito entro un determinato periodo di tempo. Solo così, ossia solo attraverso una ripartizione del debito in più rate di pagamento, l’obbligato sarà messo in condizione di attuare il debito senza devastanti sacrifici e il creditore potrà ottenere l’integrale soddisfazione della pretesa, pur se gradatamente e non in un’unica soluzione.

Esistono dunque dei casi nei quali una valutazione prognostica, in fatto, di ineseguibilità dell’obbligo, considerato che l’effettuazione per intero della prestazione è solo temporaneamente ‘impossibile’ sul piano economico[31], impone di ravvisare una vera e propria ipotesi di abuso del diritto[32] da parte di quel creditore che azioni intempestivamente (ante tempus) la pretesa in sede esecutiva[33]. A fronte di un atto di precetto (ovvero, rectius, di pignoramento) lo strumento di reazione del debitore sarà quindi quello dell’opposizione all’esecuzione (o al pignoramento per motivi sostanziali) ex art. 615, c.p.c. facendo colà valere, per interrompere la illegittima esecuzione del creditore, l’exceptio doli generali o praesenti[34].

D’altro lato la forma di inesigibilità in esame, operando sul piano sostanziale[35], impone al legale del preteso debitore, affinché possa essere superata la portata precettiva dell’art. 282, c.p.c., di prevedere giudizialmente in sede di conclusioni, nella linea avanzata in subordine per la denegata ipotesi di soccombenza, la richiesta al giudice di assegnare alla parte vittoriosa, sulla falsariga della c.d. “condanna in futuro[36]”, un congruo termine per poter esigere l’adempimento in modo da assicurare al debitore (anche contro irresponsabili contegni intemperanti del creditore e/o del relativo legale) la concreta azionabilità dell’altrui diritto ogni qual volta l’atto di adempimento previsto dalla condanna “risulti così gravoso da infliggere al debitore sacrifici tali da pregiudicarne l’intera economia individuale[37]”. Di contro, qualora l’avvocato ometta di adottare tempestivamente tale accorgimento difensivo, la sentenza tornerà a ricadere nell’area di operatività dell’art. 282, c.p.c. e non potrà dunque più essere fondatamente sollevata alcuna eccezione di inesigibilità dopo la pubblicazione del decisum.

Quanto sopra argomentato per concludere con il segnalare che un’esecuzione iniziata scorrettamente ratione temporis, ossia quando il credito è ancòra inesigibile in ragione della economica ineseguibilità dell’obbligazione pecuniaria accertata in giudizio, può innescare una serie di ripercussioni, a carico del debitore, capaci di pregiudicare lo stesso interesse in titolarità del soggetto attivo, indi conservando notevole attualità l’adagio per cui “non v’è chi sia maggiormente interessato alla prosperità del debitore che i suoi creditori medesimi[38]”.

Avv. Luca Crotti


[1] Dev’essere tenuto sempre fermo il tradizionale insegnamento per cui “Il diritto è pur sempre scienza pratica, perché ha scopi pratici”: P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2001, 5.

[2] Per l’operatività del principio appena sopra richiamato, in quanto l’obbligazione è formata non solo dall’elemento del debito ma anche da quello della responsabilità (la quale, all’occorrenza, si estende pure all’obbligo risarcitorio di corrispondere l’equivalente in denaro), v. L. Mengoni, Obbligazioni <<di risultato>> e obbligazioni <<di mezzi>> (studio critico), II, La funzione della colpa nella responsabilità contrattuale, Riv. dir. comm., 1954, 283, nt. 13 e 303, nt. 92); contra, tra gli altri, M. Giorgianni, L’obbligazione, Milano, 1968, 165. In giurisprudenza la configurabilità del fenomeno è diffusamente riconosciuta: Cass. civ. Sez. II, 30/09/2009, n. 20998; Cass. civ. Sez. lavoro, 21/04/2006, n. 9374; App. Genova Sez. I, 03/11/2005; Cass. civ. Sez. V, 09/12/2002, n. 17515; Trib. Cagliari, 09/04/1991; Cass. civ. Sez. III, 06/02/1989, n. 728; Cass. civ. Sez. II, 18/02/1986, n. 956; Cass. civ., 17/05/1983, n. 3414; Cass. civ., 16/05/1981, n. 3239; Trib. Roma, 03/05/1980 e Cass. civ., 23/03/1963, n. 721.

Rispetto al concetto di correttezza scolpito nell’art. 1175, c.c. si afferma che “Il principio vale qualsiasi sia la fonte dell’obbligazione, epperò anche per l’obbligazione risarcitoria”: F. Carusi, Correttezza (obblighi di), E.D., X, Milano, 1962, 713, nota 42.

[3] A tal proposito si vedano A. Di Majo, Termine (dir. priv.), E.D., XLIV, 1992, 210; N. Distaso, Le obbligazioni in generale, Torino, 1970, 96, ss. e M.C. Bianca, Inadempimento delle obbligazioni, Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 1218-1229, Bologna-Roma, 1979, 27 e 28.

[4] Sul tema delle clausole generali (tra le quali, appunto, la buona fede e la correttezza) cfr. L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, Metodo e teoria giuridica, Scritti, I, Milano, 2011, 165, ss.: la clausola generale non è più oggi ricostruita come un tempo, in termini di “organo respiratore del diritto” (tale veniva definita, con efficace metafora, da Vittorio Polacco), quando la si riteneva norma in bianco idonea a riempirsi materialmente del contenuto offerto, di volta in volta, dalle vigenti regole sociali (in quest’ottica la clausola generale ha una valenza esclusivamente conservativa delle ricorrenti regole sociali di condotta giuridicizzabili) ma è una disposizione rivolta al giudice per consentire a quest’ultimo, in conformità agli standard sociali (valori) indicati dalla norma positiva in esame, di individuare la regola concreta da applicare nella decisione del singolo caso controverso (in questa differente ottica la clausola generale ha una portata creativa del modello di condotta applicabile, anche come regola giuridica innovativa, al singolo caso concreto).

Nonostante nell’area dei rapporti di obbligazione il principio di buona fede oggettiva si risolva, per ragioni di giustizia sostanziale (considerata la mancata positivizzazione del divieto dell’abuso del diritto), in una preziosa “forma di controllo dei diritti soggettivi” (G. Villanacci, La buona fede oggettiva, Napoli, 2013, 128) la dottrina ha sottolineato la diffidenza con cui l’operatore del diritto, per lo meno in Italia, è solito avvicinare le clausole generali (utilizzate soprattutto dalla giurisprudenza di merito poiché relative a nozioni appartenenti prevalentemente alla zona del fatto) in quanto in grado di mettere a rischio il valore della certezza del diritto (P. Rescigno, Appunti sulle “clausole generali”, Riv. dir. comm., 1998, 3).

Evidenzia come l’utilizzo dei principi di buona fede e correttezza sia “abbastanza desueto nella nostra pratica del diritto”: A. Di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 402.

In tema di buona fede (oggettiva) si vedano anche, in dottrina, G. Stolfi, Il principio di buona fede, Riv, dir. comm., 1964, 163, ss.; S. Rodotà, Appunti sul principio di buona fede, Foro pad. 1964, 1283, ss. nonché C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, Riv. dir. civ. 1983, 205, ss. In giurisprudenza, a fronte dell’orientamento che svaluta la regola in esame (che si ritiene applicabile solo in presenza di un’altra norma posta a tutela di uno specifico interesse tipizzato della parte lesa), così riducendola, con scarsa sensibilità giuridica, ad un reperto storico di politica legislativa (Cass. civ. 20 luglio 1977, n. 3250), si registra la posizione, certamente più aderente all’impianto sistematico che caratterizza l’intero ordinamento giuridico italiano (e comunitario: T.A.R. Sicilia Palermo Sez. II, 09/03/2011, n. 416), che invece ne esalta l’essenza elevandola a vero e proprio “cardine” del diritto delle obbligazioni (Cass. civ. 5 gennaio 1966, n. 89; Cass. civ. Sez. III, 24/03/1999, n. 2788; Cass. pen. Sez. II, 15/04/2014, n. 30022; T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, 11/06/2013, n. 559 e Cass. civ. Sez. Unite, 19/09/2005, n. 18450; cfr. altresì, per l’autonoma rilevanza del precetto, Cass. civ. Sez. lavoro, 14/11/2013, n. 25607; Trib. Salerno Sez. I, 27/07/2013; Trib. Milano, 11/05/2013; Trib. Roma Sez. XI, 16/07/2012; App. Firenze, 10/08/2011; Cass. civ. Sez. III, 25/05/2010, n. 12714; Trib. Padova Sez. II, 02/04/2010; Trib. Modena Sez. I, 24/03/2010; Cass. civ. Sez. III, 18/09/2009, n. 20106; Cass. civ. Sez. III, 04/05/2009, n. 10182; Trib. Vicenza, 29/01/2009; Cass. civ. Sez. I, 22/01/2009, n. 1618; Cass. civ. Sez. Unite, 25/11/2008, n. 28056; Trib. Monza Sez. II, 26/02/2008; Cass. civ. Sez. III, 15/02/2007, n. 3462; Cass. civ. Sez. I, 27-10-2006, n. 23273; Cass. civ. Sez. III, 11/01/2006, n. 264; Cass. civ. Sez. III, 11/02/2005, n. 2855; Cass. civ. Sez. I, 15/10/2004, n. 20324; Cass. civ. Sez. lavoro, 29/07/2003, n. 11672 e Cass. civ. Sez. III, 02/04/2001, n. 4799).

Afferma il carattere “pregnante” del valore della correttezza, nell’àmbito del rapporto obbligatorio, in quanto “fecondo di risultati sia sul piano teorico che pratico”: Carusi, op. cit., 710.

[5] V. Di Majo, Termine, op. cit., 210.

[6] Cfr., in tal senso, G. Alpa, Pretese del creditore e normativa di correttezza, Riv. dir. comm., 1971, 286.

[7] Nel presente contributo viene in rilievo il caso in cui la giuridica inesigibilità del diritto di credito è figlia di una momentanea situazione di economica ineseguibilità dell’obbligo (per la rilevanza di quest’ultimo concetto: cfr. P. Perlingieri, Recensione a M.C. Bianca, in Riv. dir. comm., 1968, 345).

[8] Nessuna diversa considerazione sarebbe giustificata dalla presenza, tra i soggetti passivi della condanna contenuta nel provvedimento giudiziale, di un terzo garante (art. 106, c.p.c.) tenuto, per legge o per patto, a manlevare il patrimonio del debitore principale (e ciò in quanto, sul tempestivo adempimento spontaneo da parte di quest’ultimo, non esiste, ex ante, alcuna ragionevole certezza – si consideri, per es., che in caso di assicurazione da R.C. professionale il terzo danneggiato non ha, in alcun possibile modo, azione diretta verso la compagnia del danneggiante -).

[9] Invece l’omologo interesse del debitore a procedere, qualora ne ricorrano le diverse condizioni, ad una solutio immediata (pur se attraverso l’intervento di un terzo a norma dell’art. 1180, c.c.), per evitare di subire un complessivo aumento dei costi della prestazione, è salvaguardato dall’apposito mezzo tecnico della mora credendi (artt. 1206, ss., c.c.): A. Falzea, L’offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Milano, 1947, 35. Distingue, in dottrina, la necessità di cooperazione del creditore (ex artt. 1206, ss. c.c.) dai principi di correttezza e buona fede oggettiva (che possono entrare in gioco nei casi in cui sia richiesto di individuare quale sia la cooperazione necessaria del creditore): G. Cattaneo, La cooperazione del creditore all’adempimento, Milano, 1964, 60, ss. Diversamente è per altra dottrina la quale afferma che “le regole della correttezza e della buona fede […] valgono a mettere in ulteriore evidenza l’interesse del debitore alla liberazione”, attraverso l’adempimento spontaneo, sancito dall’art. 1206, c.c. (L. Bigliazzi Geri, Contributo ad una teoria dell’interesse legittimo nel diritto privato, Milano, 1967, 190, 193 e 195, nt. 13).

[10] Cfr. CCost. 3/02/1994, n. 19.

[11] È d’uopo precisare che, sul versante del debitore, il presente lavoro riguarda le persone fisiche (consumatori o professionisti autonomi) e gli imprenditori non soggetti a fallimento (art. 2221, c.c.).

[12] In merito il rimando è a Mengoni, Obbligazioni, op. cit., 283.

[13] V. Mengoni, Obbligazioni, op. cit., 285.

[14] Cfr., per l’idoneità della “correttezza – buona fede” a svolgere una funzione anche in termini di “limite – controllo”, A. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, Comm. Scialoja-Branca, artt. 1173-1176, Bologna-Roma, 1988, 344. Per l’ammissibilità di limiti all’esercizio del diritto potestativo: Bigliazzi Geri, Contributo, op. cit., 183, nt. 46 e P. Rescigno, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, 280, ss.

[15] Cfr. E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953, 93.

[16] Si rinvia, in proposito, ad A. Falzea, L’offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Milano, 1947, 52, ss. (l’a. mette in luce la “inadeguatezza delle comuni concezioni, del creditore tutto diritti e del debitore tutto doveri”).

[17] V. Mengoni, Obbligazioni, op. cit., 283-385.

[18] In tal senso, espressamente, si è pronunciato Trib. Verona, 30/05/1981.

[19] Inseriti nell’alveo dell’ordine pubblico, essendo dunque cogenti, per la dottrina specialistica di settore: Bianca, La nozione, op. cit., 206.

[20] Cfr. Mengoni, Forma, op. cit., 163.

[21] Richiamano espressamente, in subiecta materia, l’art. 2, Cost.: Trib. Reggio Emilia, 23/02/2013; Trib. Milano Sez. X, 17/10/2012; Cass. civ. Sez. III, 10/11/2010, n. 22819; Trib. Milano, 21/12/2009; Trib. Vicenza, 29/01/2009; Cass. civ. Sez. I, 22/01/2009, n. 1618; Cass. civ. Sez. lavoro, 07/10/2008, n. 24733; Cass. civ. Sez. I, 13-07-2007, n. 15669; Trib. Sassari, 11/07/2007; Cass. civ. Sez. III, 11/02/2005, n. 2855; Cass. civ. Sez. III, 30/07/2004, n. 14605; Cass. civ. Sez. III, 16/10/2002, n. 14726 e Trib. Bologna, 21/07/1970.

[22] Cfr. S. Pugliatti, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano, 1935, 143.

[23] Si rinvia, sul punto, a C. Gangi, Debito (schuld) e Responsabilità (haftung) – Riassunto e valutazione critica della dottrina tedesca, Sassari, 1921. In dottrina, nell’evidenziare l’importanza della responsabilità in quanto elemento funzionale a conferire giuridicità alla pretesa, si afferma che “l’obbligazione separata dall’azione non è più obbligazione”: E. Betti, Diritto sostanziale e processo, Milano, 2006, 71 e 72.

[24] L’azione di esecuzione, che è la stessa azione di condanna trasformata, è in un rapporto di stretta coordinazione con il diritto soggettivo: Betti, Diritto, op. cit., 46.

[25] Peraltro quando l’art. 283, c.p.c. individua, tra i presupposti per l’accoglimento della richiesta d’inibitoria, il rischio di “insolvenza di una delle parti”, esso si riferisce a tutte quelle ipotesi in cui la possibilità di una crisi economica dell’obbligato è frutto di una valutazione di tipo soggettivo (come tale da verificare, non in astratto, ma con riferimento alla concreta condizione economica dello specifico debitore).

[26] Si rimanda, per la dogmatica, ad A. Cicu: Lobbligazione nel patrimonio del debitore, Milano, 1948, 121-129.

[27] Cfr. F.P. Luiso, Diritto processuale civile, III, Milano, 2009, 90.

[28] Eccezion fatta per il sequestro conservativo (v. artt. 2905-2906, c.c. ed artt. 671, ss., c.p.c.) che, quale sorta di “pignoramento anticipato” (cfr., anche per la ratio dell’istituto, F.P. Luiso, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2009, 235, ss.), presuppone, nel creditore, la mancanza attuale, al tempo della proposizione dell’azione, di un titolo spedito in forma esecutiva (Cass. civ. Sez. III, 24/05/1986, n. 3499; Trib. Varese, 18/01/2014 e Trib. Varese, 02/02/2012).

[29] Nell’ottica di un bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco, e a fronte del rischio non certo remoto che il debitore possa approfittare con cattiva fede della inesigibilità del credito ritardando al di là di ogni più ragionevole previsione l’attuazione dell’obbligo, il soggetto passivo è comunque onerato, per mantenere il credito nella condizione di inesigibilità, di fornire senza indugio, dietro semplice richiesta del creditore, la prova: i) di essersi immediatamente attivato nel compimento di quanto in sua facoltà per assicurare, nello specifico, il soddisfacimento dell’altrui diritto e ii) di adoperarsi con continuità nel coltivare gli ulteriori incombenti che risultassero ancora necessari a garantire la effettiva realizzabilità di quel medesimo obiettivo. Va da sé che un abuso, nel senso ora precisato, posto in essere da parte del debitore varrebbe ad impedire la possibilità di riscontrare i caratteri stessi dell’abusività nell’azione intentata dal creditore il quale, non ottenendo in tempi ragionevoli riscontro alle relative richieste di informativa ovvero ricevendo giustificazioni meramente apparenti o manifestamente inveritiere, si determinasse nel procedere esecutivamente in giudizio verso il soggetto passivo inadempiente. In altri termini, con riguardo alla fase dell’adempimento di cui si tratta, la stessa possibilità di ravvisare un’esecuzione introdotta abusivamente ratione temporis ad opera del creditore (senza cioè che sia stato tenuto in debito conto il tempo necessario al debitore per approntare un atto solutorio capace di tacitare uno actu l’avversa pretesa) viene meno con il sopraggiungere di un abusivo (i.e.: imputabile) ritardo nel pagamento da parte del debitore, indi riprendendo incondizionato vigore le disposizioni previste in materia di mora debendi (artt. 1219, ss., c.c.).

[30] Il fenomeno della giuridica inesigibilità del credito può derivare, talvolta (P. Perlingieri, Cessione del credito ed eccezione d’inesigibilità, Riv. dir. civ., 1967, 506 e 510), da una vicenda negoziale contraddistinta con il nome di pactum de non petendo (v. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 2002, 400), normalmente concluso a termine, avente carattere gratuito (quando si risolve in una concessione fatta al debitore: cfr. art. 1244, c.c.) o corrispettivo. In sostanza, con tale accordo, il creditore si impegna verso l’obbligato a non esigere l’adempimento per un dato periodo di tempo. Sulla generale ammissibilità di tale figura cfr., sia nella giurisprudenza di merito che in quella di legittimità, Trib. Bologna, 20/02/2007; Trib. Milano Sez. II, 23/01/2007; Cass. civ. Sez. I, 12/12/2005, n. 27386; Trib. Padova, 05/04/2005; Trib. Napoli, 23/04/2002; Cass. civ. Sez. I, 20/05/1993, n. 5736; Cass. pen. Sez. V, 04/03/1993, n. 4644; Cass. civ. Sez. I, 19/11/1992, n. 12383; Cass. civ. Sez. I, 28/10/1992, n. 11722; Cass. civ. Sez. I, 16/07/1992, n. 8656; Trib. Roma, 22/06/1987; App. Roma, 01/07/1985; Cass. civ., 07/10/1967, n. 2334; si segnala, qui solo in via incidentale, che per Cass. civ. Sez. III, 12/04/2006, n. 8606 il patto “non viola il divieto di deroga convenzionale del regime legale della prescrizione fissato dall’art. 2936 cod. civ.” (in ordine alla funzione assolta da tal ultimo istituto cfr., su tutti, B. Grasso, Sulla distinzione tra prescrizione e decadenza, R.T.D.P.C., 1970, 866, ss.).

Quando il pactum de non petendo interviene nella più ristretta dimensione del processo esecutivo (G. Recinto, I patti di inesigibilità del credito, Napoli, 2004, 34) il creditore, munito di titolo esecutivo, si obbliga, sovente dietro corrispettivo, a non avvalersi della esecutorietà ex lege della sentenza e così a non compiere atti esecutivi verso il presunto debitore entro un certo periodo di tempo (ossia, di regola, sinché la sentenza non abbia acquisito autorità di cosa giudicata): l’accordo, che si colloca nell’area dell’atipico (art. 1322, cpv., c.c.) con l’espressione di “pactum de non exsequendo ad tempus” (Trib. Milano, 27/01/1999), è meritevole di tutela, pur quando stipulato anteriormente alla pubblicazione della sentenza di condanna, in quanto funzionale ad evitare, in attuazione del principio di economia degli atti giuridici, un’altalena di attribuzioni patrimoniali a seconda delle vicende del processo di cognizione (cfr. Cass. civ. Sez. III, 12/08/1991, n. 8774; contra, tuttavia, G. Fabbrini Tombari, In tema di pactum de non exsequendo, Foro it., 1992, I, 1845, ss.). Sotto un profilo di opportunità, inoltre, è consigliabile che l’accordo, almeno quando sinallagmatico, venga sottoscritto ed eseguito, in pendenza del giudizio, solo una volta che risulti sostanzialmente accertata la impercorribilità, tra le parti, di una definizione transattiva della controversia. Nel contenuto contrattuale potrà prevedersi: a) che la somma consegnata in esecuzione dell’accordo sia, nell’ipotesi di definitiva soccombenza del debitore (in esito al formarsi della regiudicata formale e sostanziale), comunque considerata quale acconto della più ampia somma dovuta a residuo saldo; b) che la stessa somma sia, al contrario, al supposto debitore prontamente restituita nel caso in cui al condannato in prime cure sia favorevole la sentenza emessa in esito al giudizio d’appello ovvero questa preveda a suo carico condanna ad una somma inferiore a quella da versare in esecuzione del patto in oggetto; c) che la stessa somma sia comunque al debitore prontamente resa nell’ipotesi in cui, in pendenza del giudizio e dopo il perfezionamento dell’accordo in oggetto, sopravvenga una transazione tra il creditore e un eventuale terzo soggetto garante; d) che gli eredi dell’appellato assumano, sottoscrivendo il patto (ad evitare il rischio di un’eredità meramente passiva di un creditore che già presenti un’età sensibilmente avanzata), fin da ora e personalmente, gli obblighi di restituzione nei termini di cui alle lettere precedenti.

Più difficile immaginare la autonoma configurabilità di un pactum de non petendo stipulato in perpetuum (per l’affermativa: Trib. Napoli, 22/10/2002) in quanto, se corrispettivo, il contratto si risolve materialmente in un pactum ut minus solvatur (Cass. civ. Sez. I, 07/07/1992, n. 8271 e B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1972, 417) o, comunque, in una fattispecie transattiva (ex artt. 1965, ss., c.c.) mentre, se liberale, il fenomeno si sostanzia in una donazione liberatoria, tipicamente consentita dall’art. 769, c.c. (P. Perlingieri, Remissione del debitore e rinunzia al credito, Napoli, 1968, 106; contrario alla donazione liberatoria, poiché ritenuta un’inutile complicazione strutturale rispetto alla remissione, si è dichiarato A. Torrente, La donazione, in Tratt. Cicu-Messineo, 2006, 256 e 257), oppure in una remissione del debito posta in essere agli effetti di cui all’art. 809, c.c. (sull’istituto della remissione cfr. P. Perlingieri, Appunti sulla rinunzia, Riv. not., 1968, 342, ss.). Residua l’ipotesi del semplice atto gratuito, per la cui ammissibilità, al di là di qualsiasi vuoto esercizio teorico (il diritto, giova ribadire, è infatti scienza pratica: F. Carresi, Autonomia privata nei contratti e negli altri atti giuridici, Riv. dir. civ., 1957, 275), è necessario individuare un concreto interesse (anche) del creditore alla conclusione della fattispecie (essendo ovviamente necessario ravvisare, a fronte del prevalente interesse del debitore al negozio, anche un concorrente interesse del soggetto attivo del rapporto obbligatorio in grado di indurre quest’ultimo alla formulazione di una conforme dichiarazione). Può immaginarsi l’ipotesi di un creditore che, a fronte di un diritto difficilmente riscuotibile (perché, magari, il debitore è soggetto poco solvibile ma persona onesta incline a rispettare spontaneamente i propri obblighi), ha interesse a conservare la titolarità del credito senza tuttavia pagare per esso le imposte, perseguendo quindi l’intento di escludere quel diritto dalle componenti attive del suo patrimonio, senza tuttavia essere costretto a cancellarlo mediante remissione o rinunzia. Ebbene se in presenza di un credito di carattere ‘personale’ la questione risulta fiscalmente irrilevante in quanto per il privato non esiste la possibilità di dedurre la perdita, in presenza di un credito d’impresa (anche individuale) il pactum, che di per sé non determina alcuna certezza in ordine alla irrecuperabilità del credito, non consente di applicare la disciplina prevista dall’art. 101, co. 5 del d.lgs. n. 917/1986 (T.U.I.R.) per l’operatività della quale (deducibilità della ‘perdita su credito’) è richiesto l’accertamento dell’inadempimento assoluto del debitore (sulla base, ad esempio, di un infruttuoso tentativo di escussione del patrimonio all’esito dell’esecuzione forzata, di ipoteche iscrivibili con un grado d’ordine tale da non consentire la realizzazione del credito, ecc.); ne deriva a rigore, sul piano fiscale, che il pactum è atto dispositivo del credito capace di determinare, in mancanza di un’autonoma prova certa in ordine all’avvenuta perdita del credito, unicamente una componente negativa di reddito non deducibile. A tutto concedere lo stesso pactum potrebbe dunque essere strumentale, senza alcun beneficio fiscale e nell’àmbito di un’area d’indagine privatistica assai marginale, alla creazione di una maggior svalutazione del credito d’impresa (in considerazione delle probabilità di presumibile realizzo di cui all’art. 2426, n. 8, c.c.), con il risultato, in fatto, di innalzare i costi d’esercizio (ma si vedano anche i dettami posti dal co. 2 dell’art. 2423, co. 2, c.c.). Del resto, a maggior completezza d’indagine, si consideri che il pactum perpetuum risulta privo di alcuna utilità pratica (almeno per il cessionario) anche nella prospettiva della circolazione della ricchezza mobiliare (artt. 1260, ss., c.c.) in quanto, verificandosi una successione particolare nel lato attivo del rapporto obbligatorio (cfr., per tutti, Pugliatti, Esecuzione, op. cit., 102), il debitore ceduto, la cui posizione per principio generale non può essere alterata in peius senza il concorso della sua partecipazione volitiva (SC nn. 2161/1964, 1525/1970, 1992/1979,8168/1991 e Cass. civ., Sez. Un., 17/12/1998, n. 12616), potrà opporre al cessionario le medesime eccezioni (non escluse quelle di natura processuale) che avrebbe potuto opporre al cedente (cfr. App. Milano, 20/10/1978 e v. P. Perlingieri, Cessione del credito ed eccezione d’inesigibilità, Riv. dir. civ., 1967, 507 nonché cfr., proprio in tema di pactum de non petendo, U. La Porta, L’assunzione del debito altrui, Tratt. Cicu-Messineo, 2009, 116 – medesime considerazioni, quelle appena svolte, che valgono, mutatis mutandis, anche nelle ipotesi assuntorie di debiti convenzionalmente divenuti, per sempre, ineseguibili: B. Grasso, Delegazione, espromissione e accollo, in Comm. Schlesinger, 2011, 104 -). In ispecie, nonostante le gravi riserve appena espresse sulla configurabilità della fattispecie (perpetua) pur quando gratuita, si verserebbe, qualora dichiarante sia il soggetto creditore, nell’area dei negozi unilaterali soggetti a rifiuto eliminativo ex art. 1333, c.c. (cfr., in tal senso, C. Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972, 349) – quale ipotesi ricostruttiva già genericamente ravvisata da una parte della dottrina che, ritenuta comunque “discussa […] la sopravvivenza e la possibile configurazione nel nostro sistema del pactum de non petendo (nelle due specie del pactum in perpetuum e di quello ad tempus)”, applica indistintamente, alle “varie figure” di pactum, l’art. 1333, c.c.: A. Luminoso, Remissione del debito, E.G. XXVI, 1991, 11 -. Atto infine, quello in esame, che, qualora ammesso, sarebbe certamente revocabile, nel ricorso delle condizioni di legge, a norma dell’art. 2901, c.c.

Tuttavia la dottrina, nell’evidente tentativo di assicurare un inquadramento unitario alla fattispecie in esame (si rinvia, sul punto, alla rassegna di G. De Cristofaro, Il pactum de non petendo nelle esperienze giuridiche tedesca e italiana, Riv. dir. civ., 1996, 394, ss.), non distingue a seconda del tipo concreto di operazione economica che il negozio è diretto a realizzare ma alternativamente afferma, in astratto, che il pactum realizza sempre e comunque: a) la “perdita del potere di agire” in giudizio per l’attuazione del diritto di credito (G. Gabrielli, Dilazione del termine per l’adempimento di un contratto preliminare e sopravvenuta infermità mentale di una delle parti, Dir. e giuri., 1972, 262, nt. 11) in quanto il negozio abdicativo ha per oggetto l’azione in giudizio connessa al credito (in tal senso, in giurisprudenza, anche SC nn. 5646/1994 e 2539/1958 – ma, per l’inscindibilità del rapporto tra diritto sostanziale e diritto processuale, cfr. Pugliatti, Esecuzione, op. cit., 13: “Il processo ha una sua indubitabile indipendenza, come complesso di atti giuridici, ma è per sua destinazione legato al diritto sostanziale, ed ha, rispetto ad esso, funzione strumentale” -); ovvero b) la remissione tout court del debito, incentrata direttamente sul diritto materiale, in virtù della considerazione per cui non è configurabile un credito incoercibile, ossia sfornito di azione giudiziale (M. Sargenti, Pactum de non petendo e remissione del debito, Foro pad., 1959, I, 302 e 303 nonché M.C. Bianca, L’obbligazione, Milano, 1993, 463); c) una vicenda modificativa della disciplina del rapporto giuridico che così risulterebbe diversamente regolamentato (F. Ruscello, <<Pactum de non petendo>> e vicenda modificativa del rapporto obbligatorio, Riv. dir. civ., 1976, II, 199) poiché il credito, risultandone modificata la qualità del diritto (che passa da una condizione di esigibilità ad uno stato di inesigibilità), si indebolisce (P. Perlingieri, La dilazione come vicenda modificativa del regolamento del rapporto, Dir. e giur. 1969, 701); infine non paiono meritevoli di particolare considerazione quelle opinioni per cui il patto si sostanzia d) in un’obbligazione negativa (E. Tilocca, La remissione del debito, Padova, 1955, 74; G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, artt. 1218-1222, Comm. Schlesinger, Milano, 1987, 467 e L. Coviello, L’obbligazione negativa, Napoli, 1931, 50), pur se perpetua, prestando comunque l’operazione il fianco ad un’azione surrogatoria (art. 2900, c.c.) considerata l’inesistenza nel debitore della facoltà di disporre di una exceptio pacti conventi capace di neutralizzare la pretesa creditoria; ovvero si dissolva e) in un negozio indiretto (Recinto, op. cit., 72), evidentemente sul presupposto che il fenomeno della inesigibilità pattizia del credito sia operazione inidonea ad esprimere un autonomo assetto di interessi in sé compiuto, come categoria (non giuridica ma) economico-patrimoniale (S. Pugliatti, Fiducia e rappresentanza indiretta, in Diritto civile, Metodo – teoria – pratica, Milano, 1951, 257-259 nonché ID., Precisazioni in tema di vendita a scopo di garanzia, ult. op. cit., 381 e 382).

Infine diverso e certamente ammissibile (per il rimedio previsto dall’art. 1183, co. 1, ult. parte, c.c.) è il pactum de non petendo ‘a tempo indeterminato’ che si sostanzia, nelle forme discrezionali (Di Majo, Termine, op. cit., 216-218) del cum voluero (SC n. 11774/2007) o del cum potuero (CC n. 1260/1971), in una rimessione (onerosa o gratuita) al debitore della individuazione del termine di adempimento (v. art. 1183, cpv., 1a parte, c.c.), con la conseguenza che si elidono le conseguenze derivanti dal mancato rispetto di un eventuale termine originario di adempimento infruttuosamente scaduto prima della conclusione del patto in oggetto (Recinto, op. cit., 51 e 89).

[31] Analizza la natura e il modo di operare del rapporto esistente tra diritto ed economia, evidenziando ch’esso riflette la medesima relazione logica intercorrente fra forma e contenuto, per assumere che diritto ed economia sono “parti integranti e fra loro interdipendenti di un’unica realtà”: L. Mengoni, Forma giuridica e materia economica, Diritto e valori, Bologna, 1985, 147, 155 e 156.

[32] Cfr. Rescigno, L’abuso, op. cit., passim.

[33] V. L. Mengoni, Responsabilità contrattuale, E.D., XXXIX, Milano, 1998, 1072, ss.; M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1998, 397; U. Breccia, Le obbligazioni, Tratt. Judica-Zatti, Milano, 1991, 492, ss.

Nell’àmbito di una rassegna l’ipotesi in esame potrebbe essere accostata a quella parimenti abusiva in cui il creditore fraziona artatamente il credito derivante da un unico titolo introducendo verso il debitore, con abuso del processo, una pluralità di azioni tra loro distinte e autonome (cfr., ex permultis, Trib. Milano, 16/04/2013 e Cass. civ. Sez. II, 27/05/2008, n. 13791).

[34] V., in giurisprudenza, Cass. civ. Sez. I., 07/03/2007, n. 5273 e, per la dottrina, U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, I, Milano, 1974, 37-39.

[35] Non si versa, in ispecie, nell’ipotesi di ritardo contenuto entro il naturale “limite della normale tolleranza” che varia, di volta in volta, in relazione all’oggetto del contratto o/e alla natura del medesimo (circostanze che, prescindendo totalmente dalla valutazione di un eventuale danno del debitore, sono in grado di influenzare il tempo di materiale esecuzione dell’obbligo senza rendere inesigibile il credito e senza legittimare la nascita della mora debendi): Trib. L’Aquila, 10/05/2010; App. Napoli Sez. III, 21/01/2010; Cass. civ. Sez. III, 06/07/2009, n. 15796; Trib. Monza, 16/03/2006 e Cass. civ. Sez. II, 23/05/1995, n. 5644.

[36] Cfr. Cass. civ. Sez. III, 10/04/2014, n. 8405; Trib. Foggia, 02/07/1988 e Pret. Bologna, 25/02/1981. Le ‘condanne in futuro’ riguardano, più frequentemente, quei casi in cui la sentenza viene emessa prima della scadenza del termine fissato per l’adempimento: v. Luiso, Diritto, op. cit., IV, 156.

[37] In tal senso cfr. M. Bessone, Obbligo di adempiere ed esigibilità della prestazione (In margine al ruolo delle valutazioni di diligenza e buona fede), Giur. it., 1972, 1254.

Certamente il debitore vede ampliato il rischio, sebbene già presente in ogni causa, che la discrezionalità del giudicante sfoci in arbitrio nella fase di concreta puntualizzazione della clausola generale: Alpa, Pretese, op. cit., 282. Le clausole generali sono strumenti formidabili per individuare il corretto precetto giuridico applicabile al caso concreto; si è tuttavia in presenza di uno strumento la cui elasticità finisce spesso nei fatti per recepire e riflettere, più che il contenuto etico del rapporto obbligatorio o il mutevole substrato della realtà sociale in cui si versa, l’inadeguatezza di coloro che sono chiamati ad applicarle.

[38] Cfr. F. Carnelutti, Diritto e processo nella teoria delle obbligazioni, Diritto sostanziale e processo, Milano, 2006, 271.

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