Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il corretto atteggiamento verso la prassi. – 3. La ingiustizia del processo <<etero-determiata>> in materia di sequestro giudiziario. – 4. Conclusioni.
Preme in limine precisare come ciò che muove la penna di chi qui scrive, spronata invero dalla semplice necessità di segnalare una <<specifica>> e delimitata questione di cattiva amministrazione della giustizia (… contra legem e, alla luce del presente scritto, probabilmente anche contra jus)[4], non è certo l’oziosa volontà di gonfiare la voce del coro levata, sembrerebbe, da quegli <<scherani>> che oggi, irriguardosi, si cimentano (forse solo nell’esercizio di un legittimo <<diritto alla resistenza collettiva contro gli abusi del potere pubblico[5]>>) nel <<tiro al giudice>> siccome a taluna corrente di matrice squisitamente giudiziaria <<pare diventato il passatempo preferito di istituzioni, politici, giornalisti, pubblicisti, cittadini scontenti delle decisioni rese, perdigiorno di vario genere, avvocati, accademici e financo colleghi e colleghe[6]>>.
Tuttavia l’apporto funzionale che il presente contributo, in sé, è in grado di offrire si limita, se n’è ben consapevoli, a rievocare quella savia riflessione per cui, in fondo, <<porre un problema è già un po’ risolverlo[7]>>.
Ciò consentirebbe altresì di accertare se l’Istituzione giudiziaria sia stata in grado, nell’interpretare ed applicare la legge, di fornire risposte effettivamente <<satisfattive>> delle plurime istanze sociali con il dotarsi di <<usanze lavorative>> in sé talmente elastiche (in quanto <<funzionalmente>> neutre – ma si dovrebbe forse talora dire <<neutrali>> -) da rivelarsi capaci di adattarsi ad ogni situazione concreta per come posta dai sempre più repentini e complessi mutamenti caoticamente compulsati dalla società post-industriale[15].
Quest’opera[16], risultando di grande stimolo nel destare la responsabile attenzione di ogni operatore di settore[17] (e, nei migliori, pure in via di autocritica[18]), si dimostra tanto più feconda (anche nel suggerire eventualmente l’adozione di una prassi[19] cd. adeguatrice) quanto più si consideri ch’essa, se condotta con la necessaria onestà intellettuale, reca seco il merito di fornire un utile ausilio all’osservatore nel concedere l’occasione a quest’ultimo di far emergere, in uno, anche le nuove tendenze in fieri presso i pratici nell’agire abituale diretto all’attuazione del diritto[20], consentendo così sulle stesse l’esercizio di un vaglio critico (sia sociale che tecnico) <<in prevenzione>> (fungendo pure da fondamentale filtro con il contribuire ad indirizzare correttamente il momento attuativo del <<principio di adeguamento del diritto al fatto>>) nell’impedire la formazione (autoritativa – concertata o spontanea che sia -) di erronei <<assiomi empirici>> di sorta (cd. prassi <<genetica>> extra ordinem) che possano in prospettiva cristallizzarsi (magari per una spiccata idoneità alla suggestione di cui possono svelarsi portatori) nell’àlveo del sistema di riferimento[21] (e presso il quale ultimo le prime risultano dotate di forme ostensive capaci di assicurarne una rilevante diffusione), in tutta violazione del basico principio ordinamentale di legalità (quale clausola di salvaguardia dell’ordine, anche sociale, sancita dall’art. 101 Cost.)[22].
Merita in proposito particolare riguardo un’estesa prassi giudiziale, attualmente adottata (non per inavvertenza) nell’àmbito della tutela cautelare sommaria contenziosa, che rivela come spesso i Giudici di merito tendano[24], di fronte ad un’istanza di sequestro giudiziario (ex art. 670 c.p.c.), a fondare quasi meccanicamente il <<decisum>> (con cui si nega il provvedimento cautelare) in forza del solo requisito ritenuto non sussistente (qualora si creda di poter facilmente ravvisare con immediatezza la carenza icto oculi di uno due presupposti dell’azione che si esamina – fumus boni iuris o periculum in mora[25] -), senza per ciò solo pronunciarsi pure sulla ricorrenza o meno dell’altro[26].
Si crede, evidentemente, in tal modo, attraverso la denunziata opzione di ‘politica giudiziaria’, di poter fondare tale uso sul potere evocativo racchiuso nel principio informatore di economia di cui all’art. 47, com. 1, Cost.[27] e di rendere in tal modo un buon servizio alla stessa collettività[28] sfruttando al massimo le potenzialità di contenimento della tempistica giudiziaria che la medesima funzione della procedura sommaria intenderebbe realizzare[29] (si tende quindi superficialmente a ritenere legittimo tale modus operandi, facendolo così artatamente rientrare nell’area riservata alla <<normale gestione>> della giustizia, in esito alla sola ravvisata pretesa omogeneità tra la funzione contenitrice alla quale in concreto assolve la prassi in esame e la funzione di speditezza cui adempie in astratto il tipo di tutela di cui si tratta)[30].
In seno a tale pratica tuttavia, re melius perpensa, si annidano gravi conseguenze che non possono non ripercuotersi in ultima analisi a tutto carico della parte processuale la quale, essendosi pronunciato il giudice di primo grado nei limiti del disconoscimento della sussistenza di uno solo dei due presupposti dell’azione, ottenendo poi in sede di gravame il riconoscimento sull’elemento prima respinto, si sente nondimeno negare, per la prima volta, la ricorrenza del presupposto trascurato presso il Giudice di prima istanza poiché da quest’ultimo, a suo tempo, indebitamente estromesso dalla relativa sommaria cognitio[31].
Pare invero che il Giudice, nel rispetto del fondamentale principio di corrispondenza tra richiesto e pronunciato, debba comunque ritenersi istituzionalmente vincolato a pronunciarsi su <<tutta la domanda>> innanzi al medesimo incardinata[32] (e, per essa, sulla ricorrenza in concreto di ciascuno dei relativi presupposti dell’agire processuale senza che possa dirsi operante alcun meccanismo di assorbimento per essere i due requisiti in esame ugualmente fondanti una medesima domanda e non risultando tra loro ordinati in niuna relazione di <<presupposto>> o di <<antecedente>> ma trovandosi invece identicamente posti sul medesimo piano di coessenziale incidenza[33], il tutto anche al fine non meno centrale di valorizzare debitamente, quanto più possibile, la rilevanza e la stessa pregnanza del giudizio di primo grado[34]): l’art. 112 c.p.c., non a caso, pare piuttosto chiaro (letto, ex latere petitoris, in correlazione con l’art. 99 c.p.c.) nel far divieto al Giudice di pronunciarsi non solo <<in eccesso>> (vizi di ultra petizione – se il supero è solo quantitativo – o di extra petizione – se il supero è qualitativo -) ma anche <<in (parziale) difetto>> (si potrebbe ritenere ricorra un errore di giudizio, e dunque un error in procedendo, che integra vizio quantitativo di <<subpetizione[35]>> – difforme da quello qualitativo che potrebbe indicarsi, per mere ragioni di differente sintesi concettuale, con il termine di <<minuspetizione>> e che potrebbe ravvisarsi, per es., qualora il giudice, richiesta una declaratoria di nullità di un negozio giuridico, si pronunci invece per il relativo annullamento[36] -).
È inoltre evidente che, in tal modo, per uno dei due presupposti dell’azione contenziosa non si è goduto (<<per saltum>>), nella sostanza, del doppio grado di giurisdizione <<formalmente>> assicurato dall’art. 669-terdecies, c.p.c.[37], quand’anche nell’àmbito (se non di un novum iudicium) di una revisio prioris instantiae[38] seppur sommaria[39] (non sussistendo alcun ragionevole dubbio sul carattere giurisdizionale del provvedimento cautelare in esame). Quanto detto a valere, anche per <<evitare i pericoli di un arido strutturalismo[40]>>, indipendentemente da qualsiasi considerazione in termini di ricorribilità o meno della citata vicenda presso la Suprema Corte di Cassazione (sebbene la ritenuta mancata attivabilità di un giudizio di legittimità non si ritiene comunque argomento certo adducibile, neppure a livello meramente <<indiziario>>, a sfavore di quanto qui sostenuto in ordine al giudizio sul “fatto”)[41].
Nella <<dimensione funzionalistica degli interessi oggettivi[42]>> (e dei valori giuridici[43]) si ritiene che il doppio grado di giurisdizione risulta per nulla assicurato dal solo art. 669 terdecies c.p.c. (quale disposizione che rileva sul solo piano strutturale): un conto è infatti la proposizione di un gravame funzionale a correggere un precedente errore di segno (nel qual caso, sul punto, si attua la duplice giurisdizione), un conto è un’impugnativa volta a correggere una lacuna della pronuncia rispetto alla quale il gravame non attua il doppio grado perché il giudice di seconde cure non si può avvalere dell’esperienza (non) maturata in prima istanza che invece dovrebbe oggettivizzarsi nella fruizione di una completa rosa di tutte le svolte argomentazioni (pro e contra) utili ai fini dell’emissione del così qualificato provvedimento finale[44]. In questo infatti (e cioè nel consentire il più possibile la limitazione delle approssimazioni e degli errori che potrebbero infirmare pure il secondo giudizio) si ritiene consistere la base sostanziale o il proprium prescrittivamente assicurato dal secondo grado di giurisdizione[45] (anche per conferire effettivo e concreto sostegno alla ricorrente affermazione che vuol ravvisare natura persuasiva nel precedente giudiziario, standosi almeno a quanto predica, a proposito dei sistemi di civil law, la dottrina comparatistica[46])[47].
Difatti una convincente valutazione circa la sussistenza del presupposto invece trascurato potrebbe meglio e più rapidamente persuadere in sede di reclamo[48] il Collegio[49] sulla ricorrenza del medesimo aspetto qualora, per es., la parte a carico della quale esso è negato (e cioè il resistente) ne impugni il relativo capo[50]. Lo stesso dicasi, mutatis mutandis, nel senso opposto, in sede di reclamo intentato dal ricorrente, per il caso di suadente valutazione negativa in primo grado. Per questo si evidenzia che un provvedimento di prima istanza, affinché possa dirsi frutto complessivamente di un apprezzabile lavoro da parte del Giudice, debba essere chiaro tanto nell’esaminare entrambi i presupposti dell’azione de qua quanto nel pronunciarsi in ordine a ciascuno dei due, inequivocabilmente, per la relativa sussistenza o carenza[51]. Il principio del minimo mezzo[52] applicato alla fase determinativa e di stesura delle pronunce[53] va infatti più correttamente riannodato, sotto il profilo preventivo di una sua funzionalizzazione prospettica, alla proponibilità di un eventuale successivo giudizio di reclamo[54] (infatti il primo grado risulta ormai strutturalmente intentato e, re adhuc integra, ci si deve indi pronunciare sotto ogni aspetto, senza scorciatoie, per quanto e/o su quello che richiede la relativa domanda): anche sul piano redazionale (ora pure nell’ottica della ricerca di un modello teorico dell’agire documentale) il Giudice non deve concedere (nei limiti del possibile) alle opposte parti del <<rapporto processuale>> spazio interpretativo alcuno che possa <<costringere>> (nei casi più eclatanti), ma anche solo indurre nello spingerla all’azione, una delle medesime ad impugnare[55] il <<decisum[56]>>. In tal modo, facilmente, risulterà anche semplificato il controllo in revisione da effettuare ad opera del Collegio in sede di riesame che potrà indi limitarsi, se del caso, ad una semplice impulsata <<conferma>> di quanto sancito in prima battuta.
Inoltre, al fine di far coincidere ordine giuridico (stato civile) ed ordine sociale (stato di natura), si ritiene che il principio di economia dei mezzi giuridici possa, ed anzi debba, trovare legittima (recte: lecita) applicazione laddove non si traduca in un’effettiva lesione (quand’anche indiretta) del diritto di difesa e quindi pure del diritto di parità ed uguaglianza delle parti, quali valori fondamentali che godono, al pari del primo, di identica copertura costituzionale (sebbene prevalente giusta il principio di <<non contraddizione[57]>>) in virtù delle inviolabili norme racchiuse negli artt. 2, 3, 24 e 111 Cost.[58]. Infatti realizzano valori costituzionalmente rilevanti: i) tanto l’art. 112 c.p.c. che (nel vincolare <<la libertà argomentativa del giudicante>>) attua, quand’anche in via mediata, il principio del contraddittorio[59] (nel senso che il rispetto della norma in esame evita che manchi una pronuncia su un coelemento dedotto da una delle parti)[60], ii) quanto il doppio grado (<<sostanziale>>) di giurisdizione (richiesto formalmente dalla stessa presenza dell’art. 669 terdecies c.p.c.) laddove si convenga sul fatto che l’essenza del medesimo concorre altresì alla realizzazione del principio del <<giusto>> processo[61].
Pare quindi evidente che, anche solo nella prospettiva del rapporto tra <<costi e benefici>>, non lascia spazio a incertezze di specie l’utilità (e dunque anche, in tale efficientistica prospettiva latamente di analisi economica del diritto, l’opportunità) del proferire del giudice, all’atto del verum dicere (quale latinetto che non deve né può limitarsi ad esprimere misticamente un dogma a garanzia del Giudice o ad imporre un atto di fede per le contrapposte parti processuali nei confronti del responso di un presunto oracolo), su entrambi i requisiti dell’azione cautelare.
Al fine di porre un argine a quanto sopra rilevato si deve all’uopo riconoscere, per tutta coerenza di sistema e in forza del “principio di adeguatezza del rimedio rispetto all’interesse sostanziale” da realizzare, la conseguente <<necessitata>> applicazione dell’art. 353, com. 1, c.p.c. (se è vero, com’è vero, che la ratio della disposizione in oggetto risiede nella <<necessità di evitare la perdita [sostanziale (n.d.r.)] di un grado di giurisdizione[62]>>).
Qualora invece non si ritenesse applicabile il correttivo dell’art. 353, 1° com., c.p.c. risulterebbe grande il rischio di ingenerare nel privato la convinzione che, rebus sic stantibus, alla prossima occasione farebbe meglio il soggetto non nel possesso dei beni mobili litigiosi (qualora ritenesse di occupare una posizione sostanziale persino di torto) ad immettersi, in qualsiasi modo (magari anche con l’uso di semplice destrezza e senza l’esercizio di violenza alcuna), nella disponibilità materiale dei medesimi per quindi scaricare sulla controparte (che dovrebbe risultare in previsione, ed all’esito di un’effettiva applicazione del doppio grado di giurisdizione, di norma nella ragione), onerata perciò pure di darvi impulso, l’accresciuta alea del giudizio sommario in esame (per non poter quest’ultima fruire proprio del miglior iter argomentativo che dovrebbe invece caratterizzare il ragionamento del Giudice di seconde cure come maggiormente attendibile poiché maturato all’esito di una valutazione critica più consapevole) e, per altro verso, accettando in tal guisa, il medesimo soggetto spossessante, di sottoporsi appositamente ad un rischio giudiziario (se non preventivamente <<calcolabile>>, quantomeno), di fatto, <<secco>> di soccombenza o vittoria (con l’evitare, appunto, un doppio grado di giurisdizione), quasi preferendo giocarsi ogni <<aspettativa>> di ragione processuale a <<testa o croce[63]>>… considerato altresì che, in generale, i Giudici di merito, volontariamente, sempre meno di frequente <<si rassegnano>> nel prestarsi a quello che dovrebbe essere il regolare ed ordinario <<sacrificio di una fattiva opera di ricerca>>, prima di emettere un qualsivoglia provvedimento, tesa a conoscere quali precedenti giudiziari si danno nella materia sottoposta al relativo vaglio (non foss’altro che in riferimento alle pronunce <<più pesanti[64]>>, nel senso di <<dotate di un maggior peso specifico>>, emesse, non a caso all’esito di impugnative, dai colleghi gerarchicamente loro sovra ordinati)[65].
Il tutto con grave, gravissimo, nocumento per lo stesso fondamentale principio ordinante di certezza del diritto (una volta vulnerata la <<minima>> soglia di <<ragionevole>> prevedibilità[66], che dev’essere invece garantita al <<cittadino>> per non degradarlo di fatto a mero <<suddito[67]>>, riferita alle realistiche conseguenze relative all’applicazione concreta della stessa legge alla quale si è assoggettati[68]), producendosi in tal modo l’irritante risultato di non consentire a certe pronunce giudiziali l’ingresso nel trasparente <<sistema protettivo dell’economia della vita e dei valori umani[69]>>.
Con buona pace per ogni fenomeno di litis contestatio (fatta salva quella a carattere pattizio utilizzata dai soli soggetti che si contraddistinguono <<ab intrinseco>> per una spiccata indole civile)[76]. In tal modo ottenendo generalizzata evidenza l’ingiustizia del processo in conseguenza del preconizzato aggravamento del <<dissenso sociale[77]>>.
Quanto considerato, senza timore alcuno di sentirsi opporre l’obiezione di essersi prodotti in una valutazione <<abnorme>> e, in quanto tale, immaginifica del paventato fenomeno regressivo[78]. Tal’ultimo rilievo sarebbe piuttosto figlio, ma è manifesto, non tanto di un consapevole atteggiamento di maturato disincanto quanto di arrendevole, inaccettabile, fatalismo.
Invero, quale monito fondato al punto da non poter più risultare ignorabile ancòra per lungo tempo[79], si ritiene che la Giustizia (e, per essa, la vessillifera macchina giudiziaria), al fine di mantenere piena attendibilità e credibilità (pure all’esito di una sobria valutazione qualitativa dell’effettiva <<utilità sociale>> del servizio reso[80], quantomeno agli occhi degli attenti ed autonomi operatori del diritto), deve compiere, oggi più che mai, un ulteriore decisivo ponderoso passo diretto a non farsi contaminare dal dilagante pressappochismo dettato dalla pervasiva frenesia che di sé crescentemente ammanta pressoché ogni attività, anche istituzionale, che nasce e si sviluppa nell’evo post industriale della livellante globalizzazione[81], laddove profonda si manifesta la crisi presente in ogni struttura della società civile (spesso malcelata dietro un’atrofica egida offerta dallo scontato simulacro della <<competitività>>)[82]. Alla luce di quanto rilevato, e senza l’intendimento di assumere alcuna posizione anche solo latamente oltranzistica, il criterio guida dev’essere quello distintivo della <<non aprioristica uniformazione>> nel tentativo di ricercare, nella proporzionata combinazione giudiziale tra teoria e pratica[83], un autentico punto di equilibrio sistematico (quale imprescindibile presupposto anche per la gemmazione di un apprezzabile <<diritto vivente>>), seppur calati nella difficile dimensione febbrile degli incalzanti e confusi ritmi imposti in ogni settore dal massificato vivere quotidiano del ventunesimo secolo[84], tra speditezza dell’azione giudiziaria[85] e tutela seria ed effettiva del cittadino che si rivolge allo Stato (… e non al Fato) per superare altrui soprusi di sorta[86].
Solo così si ritiene, nel non tradire l’intima relazione intercorrente tra magistratura e principio democratico (proprio perché nessun potere nasce senza limiti)[87], potrà dirsi rispettata la regola di civiltà consegnata alla primaria esigenza di diritto volta ad assicurare, nell’area professionale occupata dal giudizio dell’uomo, un assennato ed esemplare agire giuridico (volto pure a prevenire ogni forma di disordine o sedizione in tutta realizzazione del sommo fine <<ne cives ad arma veniant>>). Per imbattersi sempre meno frequentemente in professionisti nemici di loro stessi, del loro buon nome e della stessa idea di Giustizia che dovrebbero invece garantire con ogni miglior sforzo d’intelletto.
Nello strenuo, dichiarato, tentativo di interessare e coinvolgere verso una costruttiva e consapevole opera di giuridica creazione giudiziaria della relativa prassi (quand’anche praeter ma pur sempre secundum legem), prima ancòra che il professionista preparato che veste l’onorabile divisa di Giudice della Repubblica[88], la persona che, fiera, ab imo ne vivifica i drappi con la propria pulsante sensibilità di uomo e di giurista, vicino ai quotidiani problemi dei <<cittadini>> soggetti alla Sua giurisdizione.
Perché in fondo, a qualsiasi livello di una vita che non sia mera esistenza, è la sola qualità dell’azione che determina la dimensione della persona.
[1] Nel raccogliere l’eminente insegnamento di P. Perlingieri, Rapporti costruttivi fra diritto penale e diritto civile, in Rass. dir. civ., 1997, I, 104, nota n. 2. Del resto è ben noto che ogni questione giuridica dev’essere considerata sul piano pratico: F. Carresi, Autonomia privata nei contratti e negli altri atti giuridici, in Riv. dir. civ., 1957, 275.
[2] Cfr. G. Benedetti, Precedente giudiziale e tematizzazione del caso. Per una teoria della prassi, in Scintillae iuris, Studi in memoria di G. Gorla, I, Milano, 1994, 188.
[3] V. L. Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Jus, 1976, 12 e 13. Per la rilevanza del concetto di giustizia nell’àmbito della scienza processuale, v. A. Raselli, Giustizia e socialità, in Studi in onore di E. Redenti, II, Milano, 1951, 251 e 276.
[4] Rilievo preliminare merita, in tale ottica, la considerazione per la quale <<il ragionamento del giudice in grandissima parte non è regolato da norme e non è determinato da criteri o da fattori di carattere giuridico>>: M. Taruffo, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, in Riv. trim., 2001, 665 e 673.
Per la differenza tra legge e diritto cfr., per tutti, U. La Porta, Globalizzazione e diritto, Napoli, 2005, passim.
[5] Cfr. S. Romano, Rivoluzione e diritto, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, 222.
[6] Così, alla lettera, G. Oberto, La comunione legale tra coniugi, Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, I, Milano, 2010, XI. Alla generica considerazione appena richiamata in narrativa si contrappone lo scritto di S. Rodotà, Elogio del moralismo, Roma-Bari, 2011, passim (e, in ispecie, v. pagg. 20, 26 e 29 dove l’autorevole giurista afferma che <<la critica ai provvedimenti della magistratura rimane un punto fermissimo, indispensabile per lo stesso funzionamento della magistratura>>, mettendo inoltre esemplarmente in evidenza il concetto racchiuso nell’endiadi <<responsabilità sociale>> che, secondo il criterio di attivazione fissato dall’art. 54, cpv., Cost., incombe su tutti coloro che, parimenti cittadini, esercitano funzioni pubblicamente rilevanti; l’illustre a., ancòra, ammonisce che <<È pericoloso […] costruire i magistrati come “custodi della virtù” >>; v., tuttavia, pagg. 36 e 40).
D’altronde non può sottacersi che la funzione del Giudice, per questo delicatissima, si risolve nell’applicazione coercitiva, nei confronti del cittadino, della <<forza fisica>> e della <<violenza>> benché <<autorizzate>> dalle norme giuridiche e mascherate dietro lo schermo concettuale di una apparentemente <<distensiva>> opera di <<amministrazione della giustizia>>: k. olivercona, Il diritto come fatto, Milano, 1967, 105 e ss., per il quale a. il diritto è, di fondo, <<fatto sociale necessario>> che implica <<realisticamente>> una <<forza regolata ed organizzata […] sostenuta [di regola, n.d.a.] dall’opinione pubblica>> (in ultima analisi <<il diritto si compone […] di norme sull’uso della forza>>); pertanto è meramente <<illusoria>> la tradizionale contrapposizione tra forza e diritto (concepito quest’ultimo in un’ottica ideale prettamente <<metafisica>>, ossia quale <<sovrannaturale (pre)esistenza di diritti e di obblighi>>). La violenza materiale perpetrata in nome del diritto viene giustificata come mera forma di coazione teleologicamente <<spirituale>> o psicologica da A. Cicu, L’obbligazione nel patrimonio del debitore, Milano, 1948, 12.
Solo in questa corretta prospettiva (e cioè accettando che il <<regno del diritto>> (v. olivercona, op. cit., 149) si risolve in un <<regno della violenza oggettivamente regolata>>) è dato comprendere appieno l’autentico senso della critica che si può (e si deve) muovere ai Tribunali, fucina della giurisprudenza che dai medesimi promana all’esito dell’espletamento di uno peculiare tipo di attività umana – fallibile, in quanto tale, per definizione e in taluni non rari casi, duole rilevare, <<corruttibile>>: questa è la ragione prima del fondato timore di un esercizio (<<monopolizzato>>) della forza, di fatto, incontrollato ed ingiusto – (cfr. la mirabile opera di L. Tolstoi, Il Regno di Dio è in voi, Genova, 2003, 204 ss.). D’altronde, è dato insuperabile, <<La colpa delle degenerazioni funzionali a cui si prestano tante volte gli istituti giuridici non è mai degli istituti stessi, ma è sempre degli uomini che sono chiamati ad applicarli>> (D. Barbero).
In ordine al problema, definito per tabulas come <<cronico>>, della crisi della Giustizia in riferimento ai pronunciamenti dei giudici <<non sempre>> adeguati <<ai bisogni e alle aspettative dei cittadini>>, cfr. E. Fazzalari, Riepilogando sui problemi della giustizia, in Studi in memoria di A. Torrente, I, Milano, 1968, 335-337.
D’altro canto in dottrina si rinviene l’opinione, certo non ardita né fantasiosa, per cui il rischio che la creatività insita in ogni fase che di sé struttura l’attività giudiziaria, tesa alla formazione della decisione, <<si traduca in una scelta soggettiva ed arbitraria non è soltanto una eventualità teorica, ma è una possibilità quotidianamente presente nella prassi giudiziaria>>, cfr. M. Taruffo, Legalità e giustificazione della creazione giudiziaria del diritto, in Riv. trim., 2001, 15. Per un corretto inquadramento della soluzione si rinvia alla monografia di j. esser, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Napoli, 1983.
Il problema è tanto più evidente quanto più si consideri che i Tribunali, sin a partire dal XVI secolo, adottano nei giudizi un metodo sillogistico solo apparente poiché esso nasconde sempre <<motivazioni [… che si legano ad argomenti, n.d.a.] “non giuridici” (argomenti di politica, economia, semplice opportunità, equità, tradizione storica, richiami […] alla communis opinio)>>: g. gorla, <<Presentando>> il libro di f. roselli <<Il controllo della Cassazione civile sull’uso delle clausole generali>>, in Riv. dir. civ., 1984, 323 e 324.
[7] Così: E. Finzi, Il possesso dei diritti, Roma, 1915, 2.
[8] Muovendosi perciò nell’ottica della scienza intesa come esperienza <<oggettivizzata>>, v. B. de Giovanni, L’esperienza come oggettivazione, alle origini del problema moderno della scienza, Napoli, 1962.
[9] Cfr. S. Romano, Mitologia giuridica, op. cit., 128.
[10] V. F. Roselli, Dovere di conoscere la giurisprudenza, in Interpretazione e diritto giudiziale, I, Torino, 1999, 264 s. (l’a. giunge ad annoverare la giurisprudenza tra le fonti del diritto in forza del <<principio di effettività>>).
[11] Piena è l’adesione al pensiero espresso da illustre dottrina: E.T. Liebman, Il giudizio d’appello e la Costituzione, in Riv. dir. proc., 1980, 401.
[12] Quale fenomeno potenzialmente idoneo a spingersi, in fatto, sino a produrre una destrutturante transmutazione di valori giuridici in attività inqualificate, poiché meramente empiriche (v. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, 2009, 989), a fronte del rilievo per cui (sul presupposto che l’azione umana è un fatto-valore, in quanto fatto materiale sussunto in una norma o sorretto da un principio) <<la stessa qualificazione del fatto è inseparabile dal valore>> (cfr. S. Pugliatti, Sulla responsabilità in generale, in Scritti in onore di G. Scaduto, II, Padova, 1970, 407).
[13] Cfr. P. Perlingieri, Prassi, principio di legalità e scuole civilistiche, in Scritti catanzaresi in onore di A. Falzea, Napoli, 1987, 373 e 379.
[14] Si partecipa, con ogni convinzione, alla preoccupazione manifestata da P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 2001, 51.
[15] La dottrina, sul punto, osserva che <<Il giudice è figlio del Foro dove opera>>, v. B. Libonati, Il giudice tra ‘ambiente’ del foro ed economia di mercato, in La formazione del giurista, Milano, 2005, 69.
[16] Realizzabile da parte del singolo soggetto, nel dovuto pervicace modo, solo se puntellata dalla personale convinzione, una volta fatta propria e <<metabolizzata>>, che <<l’analisi dell’esperienza giuridica è necessaria alla conoscenza del diritto>> (così F. Carnelutti, La missione del giurista, in Studi in memoria di L. Mossa, I, Padova, 1961, 297).
[17] Sia esso notaio, avvocato, giurista o magistrato (quali figure professionali istituzionalmente dotate della necessaria competenza tecnica); d’altronde, tra questi, solo chi gode dell’immenso privilegio di poter dedicare maggior tempo allo studio di una data questione giuridica è poi socialmente in dovere di mettere i relativi risultati a disposizione di chi, più pragmatico per vocazione o contingenza, è chiamato ad applicare la legge al caso concreto.
[18] Con ciò non si afferma alcunché di nuovo: sull’importanza della <<capacità di autocritica>> cfr. P. Perlingieri, La ricerca del civilista: tra critica ed autocritica, in Rass. dir. civ., 1983, 625).
Tornare sui propri passi non è un contraddirsi ma un migliorasi: un ermeneuta capace, non leggero né avventato, ha il dovere, in primis verso se stesso, di <<saper correggere e rettificare la sua visione>> (cfr. S. Romano, Interpretazione evolutiva, op. cit., 121) al fondamentale fine di recuperare l’oggettività della scienza giuridica. Per la necessità del controllo critico da parte del Giudice nell’alveo della strutturazione dei suoi stessi procedimenti decisionali: Taruffo, Senso, op. cit., 686. Tuttavia, per la “mancanza di fiducia” del legislatore “nei confronti delle capacità professionali dei giudici italiani”, cfr. S. Chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, Riv. dir. proc., 2000, 1031.
[19] Con tale concetto si intende la <<condotta uniforme di alcuni uffici, osservata in quanto ritenuta la più adatta ed opportuna, senza tuttavia che si ritenga doverosa ed obbligatoria>> (v. T. Martines, Diritto costituzionale, Milano, 2010, 72).
[20] Si crede che, mutatis mutandis, anche rispetto al procedimento di analisi della prassi giudiziaria possono ripetersi le unificanti considerazioni di metodo a suo tempo illustrate, benché nella materia negoziale, da P. Perlingieri in riferimento all’interpretazione in senso stretto ed alla coeva attività di qualificazione, cfr. Interpretazione e qualificazione: profili dell’individuazione normativa, in Dir. giur., 1975, 826 ss.
[21] La prassi giuridica difatti, quale <<diritto in attività>>, è un <<fenomeno tendente alla continuità ed al consolidamento>>, v. A. Falzea, La prassi nella realtà del diritto, in Studi in onore di P. Rescigno, I, Milano, 1998, 356.
[22] Il principio di legalità impone che ogni specie di adottata prassi sappia inserirsi <<nel contesto generale dell’ordinamento globalmente considerato e nel flusso dinamico dell’interpretazione delle norme>>: Taruffo, Legalità, op. cit., 23. <<La prassi, finché rispetta i valori fondamentali ai quali presiede la forma del diritto, rappresenta la via obbligata per l’affermazione dei valori fondamentali che nutriscono la sostanza del diritto>>: cfr. Falzea, op. cit., 372.
Cfr., per il più recente contributo sull’argomento, P. Perlingieri, Il principio di legalità nel diritto civile, in Studi in onore di G. Cian, II, Padova, 2010, pp. 1975, 1976, 1982 e 1984 ss.
[23] Del resto la figura del <<buon giudice>>, tradizionalmente riferita alla fase di determinazione della norma di condotta nell’alveo di un giudizio di equità (v. M. Giorgianni, L’inadempimento, Milano, 1975, 337 e 338), è concetto certamente applicabile anche alla differente fase di formazione della prassi giudiziaria.
[24] Nella concretizzazione del ruolo attivo che il giudice assume nel processo, quale <<actus ad minus trium personarum>> (ossia quale procedimento a struttura <<trialogica>>), v. E. Fazzalari, Processo, in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966, 1067 ss.
[25] Requisito ritenuto, per prassi giudiziaria, più (delicato e) rilevante rispetto alla valutazione, pure impegnativa, relativa al fumus (Chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost., op. cit., 1029).
[26] Da ultimo si cita (ined.), nell’àmbito di una procedura instaurata ante causam ex art. 669-ter c.p.c. (di una delle cui contrapposte parti è stato patrono l’odierno scrivente), Trib. Firenze 30 luglio 2009 il cui provvedimento si esprime nel senso che <<ritenuto […] non sussistere nella specie il secondo presupposto [ossia il periculum in mora …] non si ritiene debba valutarsi […] la fondatezza in termini di fumus delle pretese delle parti […]>> (si segnala che tale pronuncia – tradendo l’effettività del brocardo iura novit curia racchiuso nell’art. 101, cpv., Cost. per aver confuso, con il sovrapporli, il periculum del sequestro giudiziario con quello, affatto difforme, richiesto in materia di sequestro conservativo – è contraria ad un monolitico orientamento di legittimità, evidentemente ignorato: v., per tutte, Cass. 21 dicembre 1992 n. 13546, Cass. n. 1548/1963 e Cass. n. 854/1982).
Tale riprodotta affermazione ha indotto la controparte resistente ad eccepire in via incidentale, erroneamente, in sede di reclamo (ex art. 669 terdecies cod. di rito civ.), che il Giudice di prime cure non ha valutato in concreto la ricorrenza del requisito del fumus (insistendo quindi per una pronuncia di insussistenza del medesimo … nonostante le parti si contendessero la proprietà di dipinti ereditari di pregio), laddove l’affermazione avrebbe dovuto essere correttamente interpretata (a rigor di diritto) nel senso che il Giudice di prime cure, ritenuta la sussistenza del fumus (per la sola circostanza dell’esistenza di una lite oggettivamente non pretestuosa), non è poi sceso nel merito per accertare funditus anche la solidità giuridica della pretesa che ha mosso la parte all’azione.
Per la medesima censura qui evidenziata v., tra gli altri, anche Trib. S.M. Capua Vetere, Sez. fall., 17 maggio 2005 (ma è dato registrare l’esistenza di una tesi opposta, sebbene minoritaria: Trib. Catania 8 giugno 2000, Trib. A. Piceno 3 aprile 1995 e Trib. Piacenza 28 febbraio 1995), Trib. Napoli 27 febbraio 2004, Trib. S.M. Capua Vetere 18 ottobre 2002, Trib. Napoli 27 settembre 2002, Trib. Napoli 20 gennaio 2000, 14 luglio 1998, 27 giugno 1996 e Trib. Trani 20 luglio 1983.
[27] Tale disposizione dà voce, giuridicizzandolo, al ‘sentimento nazionale’ di odiosità per ogni forma di spreco.
Detto disvalore è ravvisabile anche nella semplice venuta ad esistenza di fattispecie di sorta (pubblica o privata, negoziale o non, semplice o complessa e, in quest’ultimo caso, procedimentalizzata o a formazione successiva) inutiliter data (arg. in collegato disposto con l’art. 41, cpv., Cost.), per es. nell’àmbito della attività di procedimentalizzazione nella formazione del contratto (v., da ultima, Cass. 2 aprile 2009, n. 8038, in Notariato, I, 2010, 40 ss., con nota contraria di A. Chianale e con preferibile nota adesiva di U. La Porta).
Il medesimo tenore letterale delle su cit. disposizioni costituzionali consente di indurre che il risparmio è valore etico generalmente positivizzato poiché riferibile ad ogni tipo di <<azione>> che, per superare il vaglio della giuridica rilevanza, deve rivestire, teleologicamente, senso affatto compiuto (cfr. per es., in rito civile, l’art. 156, u.c. nonché, in àmbito di ius positum privatorum, gli artt. 1367 e 1424 c.c.; cfr. ancòra l’art. 1347 c.c. in materia di impossibilità originaria dell’oggetto del rapporto negoziale; ecc.).
[28] È risaputo che l’ordinamento giuridico e per esso, nelle appropriate sedi attuative, lo stesso potere giudiziario <<deve conciliare tre valori fondamentali: economicità, giustizia sociale e libertà individuale>> (cfr. L. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Scintillae iuris, Studi in memoria di G. Gorla, I, Milano, 1994, 456).
[29] Non si saluta perciò con favore quella proposta ricostruttiva avanzata da insigne dottrina processualistica (ispirata pur sempre ad un principio di <<economia dei giudizi>>) quando ha stigmatizzato la potenziale strumentalità attenuata della misura cautelare, soprattutto quando instaurata ante causam, rispetto al giudizio ordinario di merito: v. A. Proto Pisani, Per l’utilizzazione della tutela cautelare anche in funzione di economia processuale, in Foro it., 1998, V, 8.
[30] Che il fenomeno del <<fattore tempo>> valga a spiegare <<il fondamento […] della c.d. tutela cautelare>> è assunto ormai ampiamente noto e comunemente accolto: v., su tutti, C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Le tutele: di merito, sommarie ed esecutive, Padova, 2006, 301.
[31] Non persuade affatto la dottrina che, nel trattare la questione, fà genericamente notare come <<si ammette>> che esista una <<assoluta insensibilità del nostro diritto positivo all’incompletezza della decisione di prime cure>> laddove, poco prima, la medesima autorevole voce ha precisato che il doppio grado deve <<essere anche preceduto da una cognitio completa>>, sebbene solo tendenzialmente: così E.F. Ricci, Doppio grado di giurisdizione (principio del), I) diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, XII, Roma, 1988, 7 e 3.
[32] Si richiama, all’uopo, il fondamentale principio per cui <<solo l’eccezione può essere assorbita, e la domanda no>>: cfr. F.P. Luiso, Diritto processuale civile, I, Milano, 2009, 287.
Nessun problema, invece, se il doppio grado dovesse mancare su semplici <<questioni>>: G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1965, 979; non distingue, invece, tra domanda e questioni: C. Mandrioli, Diritto processuale civile, II, Torino, 2006, 388 nota 1.
[33] Implicitamente conforme anche F. Corsini (ID., Il reclamo cautelare, Torino, 2002, 117 e 121) quando si occupa di un omologo (ma eventualmente anche di segno opposto) <<nuovo accertamento sull’esistenza dei presupposti richiesti per la concessione della cautela>>.
Sul punto merita considerazione il fatto che la rilevanza dei presupposti della causa si sposta, nell’àmbito del processo sommario in esame, finanche sul piano della struttura della stessa domanda. Infatti, più che di presupposti dell’azione, si potrebbe forse meglio parlare di requisiti formali della relativa struttura, venendo in rilievo: i) la non pretestuosità della pretesa, da intendersi come <<possibile>> fondatezza dell’azione (v. Cass., Sez. un, n. 2989/1968 che, di fatto, attenua massimamente la consistenza dello stesso fumus inferendone, a contrario, la sussistenza dalla non manifesta temerarietà dell’avanzata pretesa); nonché ii) l’urgenza di protezione del controverso interesse sostanziale dedotto in giudizio.
Si pronuncia correttamente su entrambi i <<requisiti>> dell’azione (oltre a Trib. Milano 22 ottobre 2009 e 17 luglio 2009, App. Caltanissetta 5 agosto 2003 n. 279 nonché Trib. Bologna 13 gennaio 1997) Trib. Catania 16 gennaio 2009 (in Le società, IV, 2010, 495 e 496) benché il giudice di merito poi erri, per <<difetto>>, con il dissolvere il fumus nella mera individuazione formale di una lite oggettivamente attuale (contra, ex permultis, Trib. Bari 11 settembre 2005 e Trib. Taranto 20 ottobre 1995), così come all’opposto erra, ora per <<eccesso>>, la stessa annotatrice (S. Grossi) nel richiedere, sempre ai fini della valutazione della ricorrenza o meno del fumus, un giudizio di <<probabilità>> in relazione all’esistenza sostanziale della pretesa che, non si deve dimenticare, è stata processualmente azionata (o.l.c., 497 e 498) al mero scopo conservativo (v. App. Torino 29 maggio 2002) di realizzare (senza che venga qui minimamente in gioco, in favore dell’attuale soggetto possessore, alcun beneficio riconducibile al cd. possiedo quia possiedo) un incolore mittite ambo ad rem sostanzialmente non lesivo della posizione di alcuno dei soggetti coinvolti, ma anzi propedeuticamente garantista per tutti (quand’anche si ritenga, con la corrente di pensiero più moderna, che la mutata funzione del sequestro giudiziario è oggi quella di assicurare sùbito un’utilità sostanziale al ricorrente per come consistente nell’ottenimento di un accertamento con efficacia di giudicato a prescindere da ogni considerazione in punto di relativa strumentalità, tradizionalmente ritenuta essenziale, all’instaurazione di un’ordinaria procedura di merito a cognizione piena: E. Dalmotto, Il rito cautelare competitivo, in Riv trim., 2007, 267). Inoltre pure il giudice siciliano da ultimo citato confonde gli elementi (soggettivi e pratici) che normalmente consentono di ritenere integrato il periculum nel sequestro conservativo (pregressi atti concreti, prodromici alla lesione del credito alla luce dell’art. 2740 c.c. e quindi all’esito di una costante e progressiva erosione di una complessa sostanza patrimoniale in titolarità del debitore) con il periculum invece utile ai fini della concessione del sequestro giudiziario dove l’interesse del sequestrante si concentra sul bene specificamente individuato nella sua oggettiva consistenza: in quest’ultimo caso è perciò sufficiente la presenza di un astratto e teorico rischio di alienazione uno actu del bene in questione, soprattutto quando si tratta di mobile ordinario (stante l’art. 1153 c.c. quale disposizione fonte di irreparabile pregiudizio per la realizzazione dell’interesse del soggetto ricorrente) con conseguente facile simulabilità relativa del corrispettivo ricavato (v. Trib. Velletri 17 luglio 2003 e Trib. Monza 17 aprile 2001); ovviamente il periculum da ravvisare ai fini della concessione del sequestro conservativo coinciderà, in fatto (indi ricevendo effettiva tutela anche in astratto), con quello (oggettivo) richiesto per il sequestro giudiziario in quelle ipotesi in cui il debitore ha un solo bene aggredibile in patrimonio (cfr. Cass. n. 69/1987) ovvero quando il creditore vanta una pretesa di ingente valore all’evidenza non temeraria: in tali casi il creditore non è affatto onerato di dedurre in giudizio (benché qualora ciò avvenga si tramuta l’opportunità della custodia in <<necessarietà>>: così anche Trib. Torino 3 luglio 2009) atti debitori di sorta funzionalmente preordinati alla lesione del credito (il cadere in diverso avviso varrebbe a gravare indebitamente il soggetto attivo del rapporto giuridico di un’autentica diabolica probatio).
Incrina ogni più ragionevole principio di certezza del diritto, con l’annullare ora qualsiasi rilevanza di entrambi i noti presupposti dell’azione cautelare, Trib. Milano 16 aprile 2010 (ined.) laddove, fuorviante, sancisce che <<Quanto ai presupposti ex art. 670 c.p.c. non è fuori luogo rammentare che l’adozione del provvedimento richiesto non è ancorato necessariamente alla sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora>> (così originando nella materia de qua un avventuroso precedente idoneo a fondare un vero e proprio rischio di erronea <<standardizzazione>> delle future pronunce). Da quanto appena rilevato risulta allo stato lampante che, in relazione al considerato istituto cautelare di diritto processuale civile, sta ricevendo crescente diffusione, al di là della prassi denunciata in narrativa, una disorganica molteplicità di precedenti giudiziali incoerenti e tra loro contraddittori con i quali l’operatore è chiamato <<regolarmente>> a doversi confrontare (e se si può affermare che, a livello nazionale, ciò determina una pluralità di difformi indirizzi giudiziali, ciò significa pure che a livello europeo, come Stato-istituzione, non se ne ha in realtà alcuno). Si sottopone infine all’attenzione del lettore anche Trib. Campobasso 18 aprile 2009 (in Le società, VII, 2009, 881 ss. con nota contraria, pienamente condivisibile anche nel merito, di U. La Porta, Sequestro (penale) di partecipazioni sociali e (irragionevole) compressione dell’autonomia privata; v. altresì la nota, pur’essa contraria, di L. Renna, in Contr. e impr., 2010, II, 323 ss.) per interessare, la pronuncia, l’istituto del sequestro preventivo penale ex art. 321 c.p.p.: anche in tale àmbito, difatti, è richiesto tanto il fumus cd. criminis o commissi delicti (che consiste in un giudizio ipotetico relativo alla sussumibilità del fatto concretamente contestato in una fattispecie astratta di reato, v. Cass. pen. 17 febbraio 2003, n. 23255; mentre discorre in termini più concreti di <<probabilità di commissione>>: Cass. pen. 25 febbraio 1994, n. 1148) quanto il periculum in mora (quale concreta possibilità che il bene sequestrando possa continuare ad essere utilizzato come strumento attraverso cui produrre ulteriori effetti penalmente rilevanti: Cass. pen. 21 gennaio 2004, n. 5302; discorre invece, ora più intensamente, di <<imminente ed elevata probabilità>> Cass. pen. 20 maggio 1997, n. 2114). Queste brevi notazioni consentono di rispondere al quesito posto a suo tempo da Dalmotto sul <<se il rito cautelare riformato>> sarebbe stato in grado di <<rendere più efficiente la risposta alla domanda di giustizia dei cittadini e delle imprese>> (v., op. cit., 269) e valgono altresì a rivelare come non abbia minimamente colto nel segno la previsione, lumeggiata in conseguenza dell’adozione di un preteso <<rito cautelare competitivo>>, di un’accentuata severità dell’indagine sul fumus rispetto a quella invece relativa alla valutazione della ricorrenza del periculum in mora (cfr., op. cit., 269 e 270).
[34] Naturalmente il diritto del soggetto istante ad ottenere una pronuncia completa sulla rispettiva domanda sconta l’onere, talvolta severo (quale ineliminabile costo per il rispetto della necessaria natura ipotetica della cognizione), di far acquisire al processo un thema decidendum tanto solido da non poter essere vulnerato, nella fase di trattazione in senso ampio, da assorbente eccezione di sorta tra quelle preliminari nel merito (sollevabili, per es., per mancata prova dell’esistenza di un fatto costitutivo) o pregiudiziali di rito (ex art. 187, com. 2 e 3 c.p.c.). Il principio di <<globalità>> della pronuncia (ex art. 112, com. 1, parte 1a, c.p.c.) opera invero, nell’àmbito di un giudizio ritualmente instaurato sotto ogni profilo, per i soli fatti controversi processualmente istruiti (quand’anche forieri di prova non sufficientemente persuasiva o superata da una replica in correlativa controprova), senza che nell’àmbito di tale correlazione (tra domanda ed istruzione) abbia alcuna incidenza diretta il principio di economia dei mezzi processuali (che opera invece tra decisione ed istruzione: cfr. art. 175, com. 1, c.p.c.). Quanto qui lumeggiato non è affatto sufficiente, per come evidente, a declassare il principio del <<doppio grado>> di giurisdizione a regola pratica meramente tendenziale (laddove <<pratica>> è solo l’affermazione che ispira apoditticamente tal’ultimo asserto) in quanto esso deve sempre necessariamente operare, benché negli ovvi limiti di quei soli elementi della domanda assunti o di quelle sole eccezioni istruite (non ponendosi così problemi al riguardo per le cause di puro diritto e per quelle documentalmente istruite, risultando invece sempre necessaria l’istruttoria nell’eventualità della contumacia – la ficta contestatio, espediente che sta alla base di quest’ultima regola, non è certo funzionale ad assicurare il diritto di difesa in favore di chi in quel dato processo non è intervenuto, ma è invece volta a garantire, in un’eventuale sede di appello, proprio il doppio grado di giurisdizione, benché in ordine ad una pronuncia alla cui formazione l’ipotetico appellante non ha concorso sotto alcun profilo -). Il doppio grado di giurisdizione non ha sostanziale ragion d’essere, ma è ovvio, per i fatti cd. pacifici, e perciò nei casi di ammissione espressa o tacita (non contestazione) dei fatti storici rispettivamente allegati dalle parti.
[35] Tant’è vero che <<il ricorrente potrà altresì lamentare eventuali omissioni di pronuncia>> (non essendo certamente inquadrabili, fumus e periculum, nell’area delle questioni meramente processuali): Corsini, op. cit., 107. Neppure è necessario, per addivenire ad una revisione del provvedimento cautelare di primo grado, che in concreto ricorra il vizio di omissione di motivazione: Trib. Milano 15 marzo 1993.
Si veda in proposito anche il significativo indice normativo (di recente statuizione) fornito, in materia di arbitrato rituale e dunque per i lodi a rilevanza <<para-giurisdizionale>>, dal motivo di nullità sancito dall’art. 829, com. 1, n. 11) c.p.c. – ed esteso pure alle eccezioni (!) – (quale vizio genericamente indicato come di <<infrapetizione>> da Luiso, op. cit., 426).
[36] In ispecie, per condivisibile massima giurisprudenziale, cfr. Trib. Nuoro, 24 febbraio 2003, Cass. 30 luglio 1999, n. 8285, Cass. 11 gennaio 1997, n. 202 e Cass. 22 marzo 1993, n. 3356; per altro e più recente verso v., invece, Cass. 18 luglio 2007, n. 15981, Cass. 26 novembre 2002, n. 16708 e Cass. 13 dicembre 1996, n. 11157.
[37] Si precisa che l’evoluzione storica ha progressivamente sfumato le classiche distinzioni tra azioni di impugnativa in senso stretto e gravami: cfr. A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 456.
Con l’essersi liberata <<realisticamente>> dalle inopportune rigidità concettuali che i lacci delle categorie sovente producono (v. N. Lipari, Prolegomeni ad uno studio sulle categorie del diritto civile, in Riv. dir. civ., 2009, 520, 521, 523 e 528), parte della dottrina si esprime in proposito in termini di <<primo grado>> e di <<secondo grado>>: Corsini, op. cit., 107 e 108. Non è un caso se, per quest’ultimo a., <<l’appello […] costituisce il gravame con più punti di contatto con il reclamo>> (v. Corsini, op. cit., 101).
Tuttavia contraria si è dimostrata, in una pronuncia, la Consulta (sent. n. 65 del 17.3.1998, in Foro it., 1998, I, 1759): in tale differente prospettiva il reclamo non è un’impugnativa <<scalare>> (come invece si sostiene nel presente scritto ritenendosi sufficiente, al fine di configurare un’impugnazione – e dunque anche la diversità di giudice tra primo e secondo grado -, un semplice rafforzamento strutturale tra organo a quo e giudice ad quem dove in luogo del criterio anche qualitativo proprio dell’appello consistente nella maggior maturità ed esperienza del soggetto giudicante si adotta quello quantitativo <<secco>> consistente nella semplice pluralità di teste) ma <<rotatoria>> (quasi si andasse alla ricerca della canonica “doppia conforme” quale criterio di prevalenza della maggioranza dei giudizi) in quanto rimedio che andrebbe configurato (per l’assenza di sovraordinazione gerarchica tra giudici – … nonostante la lettera degli artt. 101, cpv. e 107, com. 3, Cost. -) come semplice prosecuzione di un unitario processo cautelare sottoposto ad un controllo espletato a rotazione dai giudici di primo grado (e quindi la cognizione sarebbe estesa anche a questioni non espressamente riproposte dalle parti – con evidente supero dell’art. 346 c.c. – e con conseguente possibilità di automatica reformatio in peius: il collegio sarebbe indi investito di poteri di indagine limitati unicamente dal contenuto del ricorso introduttivo della contesa cautelare). Contrario alla ricostruzione adottata dal Giudice delle leggi (e propugnata in dottrina da G. Arieta) si dimostra espressamente Corsini, op. cit., 103 (d’altronde anche la revocazione e l’opposizione di terzo sono pur sempre impugnazioni, benché non proposte ad un organo superiore ma al medesimo giudice che ha emesso la sentenza contestata).
Quindi il fatto che, normalmente, il giudice ad quem sia gerarchicamente sovraordinato rispetto al giudice a quo è fatto di pura scelta di politica legislativa (e non certo <<di diritto>> intesa come necessità logica) che risulta perciò essere di mera convenienza e che non vale pertanto a colorare di sé, connotandolo nella dimensione concettuale-ontologica, il rimedio dell’impugnazione: F. Carnelutti, Diritto e processo, Napoli, 1958, 234 ss.
Certamente nel reclamo, quale rimedio a critica libera (nel senso che per esso manca una predeterminazione legislativa dei tipi di vizi che possono essere fatti valere), sussiste (oltre al divieto di automatica reformatio in peius in assenza di impugnativa incidentale) un effetto devolutivo limitato (quand’anche per l’applicazione analogica degli artt. 342, com. 1, e 346 c.p.c.) ai soli vizi sollevati dalle parti (pena verifica della ricorrenza di una delle rarissime ipotesi di responsabilità civile del giudice per colpa grave – nello specifico: ex artt. 28 Cost. e 2, com. 3, lett. b, L. n. 117/1988 – che, con l’emettere un’irragionevole decisione che non si esita qui a definire finanche <<assurda>> poiché vertente su punti non più contestati, surrettiziamente si sostituisce illegittimamente alla parte nell’implicito svolgimento di difese processuali in tal modo indebitamente presupposte poiché in realtà inesistenti: si sa bene che, non potendosi avvalere il Giudice della propria <<scienza privata>>, l’adozione della pronuncia <<è una scelta compiuta dal giudice all’interno degli esiti argomentativi segnati dalle parti nelle loro difese>>, cfr. A. Gentili, Contraddittorio e giusta decisione nel processo civile, in Studi in onore di G. Cian, I, Padova, 2010, 1196): conformemente, nel senso che il giudice deve mantenersi <<intra petita>> (per non rientrarsi in quei casi che derogano agli artt. 99 e 112 c.p.c. nel consentire una pronuncia d’ufficio al giudice stesso), cfr. Cass. 4 settembre 1996, n. 8063, Trib. Padova, 13 febbraio 1996, App. Milano 5 maggio 1995 e Trib. Napoli 25 marzo 1993 (non a caso, anche sotto il profilo puramente letterale, l’esegesi dello stesso art. 669 terdecies c.p.c. chiarisce per tabulas che oggetto del reclamo è la sola ordinanza la quale, in ossequio al principio dispositivo dell’oggetto del processo, non si identifica affatto di necessità con la controversia già esaminata in prime cure).
Quanto precisato è sostenuto non solo al fine di rispettare la speditezza dei tempi processuali imposta dal carattere cautelare della tutela ma anche e principalmente nell’ottica liberal-dispositiva del carattere essenziale e necessario dell’impulso processuale determinato esclusivamente dall’iniziativa del soggetto della tutela nel rispetto altresì del ditterio <<tantum devolutum quantum appellatum>>, pure al fine di evitare abusi giudiziari nell’arginare il rischio di imbattersi (soprattutto innanzi ad un reclamo giuridicamente fondato ma, per es., aggressivo nel mettere a nudo la giuridica inconsistenza dell’impugnato provvedimento) in (frequenti) atteggiamenti corporativi assunti, poco professionalmente e irresponsabilmente, dal giudice di seconde cure riunitosi in formazione <<sovra-strutturata>> (è infatti palese, almeno per chi intenda vedere, come la guarentigia consistente nel divieto che il giudice di prime cure faccia parte del collegio riunitosi in sede di gravame abbia un carattere meramente formale: i Giudici meno intellettualmente evoluti talvolta, a fronte dell’esercizio criticamente orientato del potere di azione da parte del soggetto risultato erroneamente soccombente in prima istanza, tendono a spostare la vicenda su un piano personale con il legale di parte non ponendo mente al fatto che in tal modo, abbandonando inconsciamente – in tutta violazione dell’art. 111 Cost. – i fondamentali predicati della terzietà e dell’imparzialità, si autolegittimano indebitamente a giocare con i patrimoni dei cittadini che ai medesimi si rivolgono per ottenere niente altro che Giustizia – da ciò, evidenti, anche i problemi di incompatibilità tra i giudici del reclamo e quello concretamente investito della causa di merito -): se non operasse alcun limite all’effetto devolutivo si renderebbe possibile al collegio rifiutare la tutela riconoscendo la sussistenza di quello dei presupposti negato in primo grado (a fronte della produzione, ad opera della parte ricorrente, di costanti sentenze di legittimità ignorate dal primo giudice) e negando arbitrariamente la sussistenza dell’altro presupposto riconosciuto in primo grado e non specificamente impugnato ad opera del (costituito o meno) resistente (al quale ultimo il giudice andrebbe indebitamente a surrogarsi nell’assumerne le vesti).
Deve quindi respingersi con ogni fermezza la differente opinione (raccomandata da Corsini, op. cit., 109 ss.) in base alla quale l’effetto devolutivo è <<automatico>> nonché <<pieno ed assoluto>> o <<totale>>, nel senso che l’organo decidente investito del reclamo ha la potestà di riesaminare l’intero contenuto della lite di primo grado indipendentemente da un’espressa domanda in tal senso avanzata da alcuna delle parti. Ciò indurrebbe a delegittimare in toto la credibilità dell’attività svolta dal primo giudice (che in tal modo si appaleserebbe altresì del tutto inutilmente svolta) ed a snaturare con l’indebolirla la funzione tipicamente di controllo di cui si connota l’istituto del reclamo. D’altronde il reclamo è strumento predisposto nell’interesse delle contrapposte parti in causa e non è rimedio funzionale a tutelare alcuna (pretesa) buona <<immagine>> dell’Ufficio giudiziario implicato (quasi ch’esso fosse istituto volto a consentire la correzione di ogni e qualsiasi errore giudiziario in precedenza commesso): la sua utilità risiede nell’ottenere un controllo volto a garantire il potenziale miglioramento del giudizio di primo grado su quegli aspetti di tale giudizio che le parti scelgono di assoggettare a critica.
In realtà un effetto devolutivo (non automatico ma pur sempre) pieno ben si può attuare in concreto per effetto, per es., delle contestazioni sollevate dal resistente (che, attenendo anche ai <<capi>> non impugnati dal ricorrente, vanno di fatto a sommarsi con gli aspetti specificamente contestati dal reclamante).
Si consideri inoltre che il reclamante può scegliere di indicare le proprie specifiche doglianze in via (non generica ma) generale, risultando all’uopo sufficiente (senza che per ciò solo sia ravvisabile alcuna disapplicazione o violazione dell’art. 342 c.p.c.) lamentare la complessiva erroneità o ingiustizia dell’impugnata ordinanza: deve infatti ritenersi, sotto il profilo giuridico, del tutto inutile e pedante (i.e.: formalistico) nonché, sul piano stilistico, sconvenientemente ampolloso indicare partitamente ciascun vizio di ogni singolo passaggio della pronuncia laddove si ritenga il provvedimento totalmente scorretto in ogni suo snodo logico-giuridico.
Alla luce di quanto sopra devono quindi ritenersi assolutamente inaccettabili le gravi conclusioni cui approda il Corsini, op. cit., 119, il quale a., nel dover sancire l’attenuazione del principio tra chiesto e pronunciato (a fronte del sostenuto effetto devolutivo <<totale ed automatico>>), consegna nelle mani del giudice poteri d’ingerenza del tutto ultronei rispetto a quanto i privati hanno effettivamente inteso concedere in sede di reclamo (tant’è che il collegio potrebbe modificare ad nutum la valutazione della sussistenza dei presupposti dell’azione per come inizialmente valutati dal giudice unico a prescindere da qualsiasi richiesta in tal senso ad opera tanto del ricorrente quanto del resistente <<rimessosi a giustizia>>): tale ricostruzione, entrando in piena collisione con il principio di certezza del diritto (nel rinnovare ex novo ed integralmente l’alea giudiziale che, incontrollabile, grava sulle parti in lite), risulta elaborata in spregio al più elementare principio di miglior prevedibilità (rispetto a quella originariamente sussistente in primo grado) circa l’esito delle intraprese iniziative giudiziali in sede di gravame (dove comunque ci si avvale necessariamente di un materiale argomentativo più ampio e rimeditato – in considerazione delle eccezioni sollevate dalla controparte e delle seppur succinte motivazioni espresse per iscritto dal giudice – rispetto a quanto dedotto in primo grado, quand’anche unicamente in relazione allo specifico denunciato vizio). Si imporrebbe in tal modo a quella delle parti che voglia contenere quanto più possibile le <<sorprese giudiziali>> (a fronte di una spiccata atipicità dell’errore giudiziario) di dover riprendere daccapo ogni argomentazione su ogni capo dell’ordinanza impugnata – o addirittura, per Corsini, dell’intera <<controversia già trattata>> – (al mero fine di precludere al giudice la percorribilità di strade, magari prima non ipotizzate, che potrebbero condurre a soluzioni scorrette). Con il risultato di imporre alla parte la redazione di un atto inopportunamente prolisso, come tale destinato a non essere letto da un Giudice superficiale o, comunque, ad essere ritenuto insolente o finanche arrogante da un Giudice preparato e diligente.
Inoltre, in considerazione del limitato effetto devolutivo, potrebbe giungersi, se fosse ritenuta davvero legittima la prassi giudiziaria denunziata in narrativa, alla paradossale configurabilità della concessione, in sede di gravame, di un provvedimento cautelare sulla scorta della riconosciuta sussistenza di un solo presupposto dell’azione (ritenuto originariamente insussistente dal giudice di prime cure), risolvendosi in una pericolosa fictio l’idea che impugnando per un solo requisito, la parte, (nel silenzio) deve intendersi si sia implicitamente rimessa a giustizia (iura novit curia) in ordine alla sussistenza dell’altro (mentre, in tal caso, la parte contro la quale operava l’altro presupposto ritenuto sussistente in prima istanza non ha invece assolto in secondo grado al peso della prova che tipicamente la gravava ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2697 c.c. qualora sul punto sia stata oggettivamente omessa la deduzione dei relativi mezzi, indi operando la regola di giudizio dell’imputet sibi racchiusa altresì nel vincolo del Giudice a pronunciarsi solo iuxta alligata et probata).
Per il divieto di reformatio in peius v., su tutti, P. Calamandrei, Appunti sulla <<reformatio in peius>>, in Riv. dir. proc. civ., 1929, I, 300 e F. Carnelutti, Capo di sentenza, in Riv. dir. proc. civ., 1933, I, 117 ss.
Per il principio dispositivo, cfr. E.T. Liebman, Fondamento del principio dispositivo, Padova, 1960.
[38] La Corte Cost. si è pronunciata questa volta in tal senso, apertamente, con i decisa del 23 giugno 1994, n. 253 e del 26 maggio 1995, n. 197 (dimostrandosi così la stessa opinione della Consulta, sul punto, incerta e perplessa).
[39] Nell’àmbito di un giudizio che, soggetto allo stabile effetto preclusivo di cui all’art. 669-septies, co. 1, 2a parte, c.p.c. e agli effetti di cui all’art. 669-octies, co. 6, c.p.c., si svolge in funzione del contraddittorio tra le parti in potenziale condizione di parità (sebbene la dottrina egemone non ritenga tal’ultima circostanza sufficiente al fine di cui in narrativa: cfr., per tutti, L. Lanfranchi, Giusto processo (civile), E.G., XV, Roma, 1989, 1, 7, 8 e 13). Del resto, anche in considerazione del recente proliferare legislativo di riti differenziati, è lecito dubitare della fondatezza delle dominanti tesi ‘riduzionistiche’ e della conseguente necessità di ricostruire dogmaticamente una concezione unitaria del ‘giusto processo’, come se quest’ultima fosse, non un valore fondamentale permeante l’intero sistema processuale, ma una specifica qualità (così resa, di fatto, prettamente strutturale) della sola procedura che si svolge secondo il tipo di rito ordinario (in tal modo legittimandosi la conclusone per cui, ciò che non vi rientra, possa in qualche modo essere ‘ingiusto’ proprio rispetto a quanto lo stesso processo è – istituzionalmente e per definizione – deputato a curare, ossia l’esercizio dei diritti sanciti dall’art. 24, co. 1 e 2, Cost.).
In proposito – lungi dal considerare l’attributo “giusto”, costituzionalmente assegnato al processo, un elemento di pura enfasi normativa – si evidenzia che, anche nel caso in cui non vi provveda direttamente la legge attraverso un’apposita previsione normativa, è pur sempre l’uomo, e così la scelta (modus procedendi) di un Giudice consapevole della responsabilità che lo grava, ad essere vincolato, nel generale rispetto della funzione del rito prescelto da chi al processo ha dato impulso, dal dovere di accordare, a livello endoprocessuale e a tutti gli interessi rappresentati dalle contrapposte parti in giudizio (ma senza supplire paternalisticamente alle loro carenze difensive), una formale tutela (in punto di garanzia del contraddittorio, di paritetico esercizio del diritto e di riconoscimento della facoltà di somministrazione della prova) sostanzialmente idonea ad assicurare la ‘giustezza’ del celebrando processo (cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 19/06/1996, n. 5629 e Corte cost., 10/11/1999, n. 427 nonché, in dottrina, S. Chiarloni, Giusto processo, garanzie processuali, giustizia della decisione, R.T.D.P.C., 2008, I, passim (e gli autori ivi richiamati) nonché Chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost., op. cit., 1015 e C. Consolo, Un giudice specializzato e vari nuovi riti per le liti societarie ?, Il corriere giur., V, 2000, 566-568). Invero la discrezionalità del Giudice, sostanzialmente ineliminabile anche nel pur regolamentato giudizio ordinario, viene attenuata proprio dal sistema del doppio grado di giurisdizione. Ed anche in questa prospettiva emerge, sempre per la finalità di rispettare il dettato costituzionale, la primaria necessità di creare una corretta prassi giudiziale: Chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost., op. cit., 1019.
[40] Cfr. P. Perlingieri, Nuovi profili del contratto, in Rass. dir. civ., 2000, 557.
[41] Sul tema v. Corsini, op. cit., 115 e 360 ss. L’attuale stato della giurisprudenza (cd. speculum) nega l’impugnabilità in Cassazione (ex art. 111, 7° com., Cost.) del provvedimento con cui si decide sul reclamo, cfr. Cass., 23 luglio 2009, n. 17266; CC, SU, 20 novembre 2008, n. 2753; CC nn. 27187/2007, 24668 e 15579 del 2006 nonché SC nn. 3403/1998 e 10368/1997; identicamente, per la dottrina, si rinvia a Lanfranchi, op. cit.,18.
Anche la Corte di Cassazione (che non istituisce un terzo grado di giudizio), oltre che ad assicurare (in qualità di guardiano supremo della legalità) l’uniformità della giurisprudenza ‘inferiore’ (nell’espletamento della nota funzione cd. nomofilattica), tende a garantire una <<maggior giustizia del singolo caso sotto il profilo di un apprezzamento di diritto che […] si suppone più esatto>> operando, solo per specifici vizi, quale <<giudice del diritto puro>>: E. Allorio, Sul doppio grado del processo civile, in Riv. dir. civ., 1982, pp. 328, 329 e 333. In sostanza il giudizio di legittimità, a differenza del riesame potenzialmente pieno (in fatto e in diritto), attua la giustizia sul solo piano del sindacato in diritto (mediante, appunto, un <<controllo in diritto delle sentenze “di merito”>>). Cfr. altresì l’art. 363 c.p.c.
[42] Evidenzia la rilevanza centrale della magmatica dimensione contenutistica del diritto scritto, dichiarandosi contrario al gessante positivismo di stampo unilateralmente formalistico, P. Schlesinger, La grande dicotomia, in Studi in onore di G. Cian, II, Padova, 2010, 2307 e 2310.
[43] Cfr. V. Scalisi, Assiologia e teoria del diritto (rileggendo Rodolfo De Stefano), in Riv. dir. civ., 2010, I, 1 ss.
[44] Salvo, ovviamente, quanto consentito dagli artt. 669 septies, com. 1, 2a p., e 669 decies c.p.c.
[45] La dottrina evidenzia che: <<Il materiale […] raccolto in primo grado appartiene senz’altro al secondo grado, purché [in attuazione del relativo onere di parte, n.d.a.] prodotto innanzi al secondo giudice>> (cfr. Chiovenda, op. cit., 977).
[46] V. M. Taruffo, Dimensioni del precedente giudiziario, in Scintillae iuris, Studi in memoria di G. Gorla, I, Milano, 1994, 400; cfr. altresì, M. Taruffo, Precedente ed esempio nella decisione giudiziaria, in Riv. trim., 1994, I, 19 ss. nonché Mengoni, L’argomentazione orientata, op. cit., 458. Il fondare una decisione su un (autorevole) precedente conforme vale, di fatto, a conferire migliore <<accettabilità>>, a livello di razionale congruenza sistematico-ordinamentale, al medesimo <<decisum>> (tanto che il precedente può essere validamente abbandonato o rovesciato solo quando ed in quanto ricorrano <<sufficienti [ed adeguate, n.d.a.] ragioni>>): Taruffo, Legalità, op. cit., 27 e 28 e nota 44.
[47] Quindi il doppio grado di giurisdizione pare realizzarsi non solo su di un piano squisitamente formale (con il consentire alla parte soccombente la possibilità di rimediare ad un errore pregresso) ma anche in una dimensione materiale attraverso la garanzia dell’incremento della complessiva strumentazione (di certo oggettiva – in termini di strutturazione dell’organo e di materiale di causa – e, talvolta, anche soggettiva – in termini di esperienza professionale -) funzionalmente preordinata a mettere l’organo deputato a decidere sul gravame nella miglior posizione possibile per assumere una decisione <<giusta>> e dunque pure realmente corretta (altrimenti l’esito del secondo grado rischierebbe di doversi risolvere in un vuoto bis in idem rispetto al primo giudizio, salva l’occasionale ricorrenza di un differente <<gusto>> giuridico nel giudice del riesame).
Quanto qui ritenuto è all’uopo intuitivamente affermabile finanche sulla base del cd. <<ius involontarium>> (ossia alla luce di quelle norme-valori non poste direttamente dalla volontà dell’uomo ma ascrivibili alla stessa categoria dell’essere quale ed in quanto naturale, indefettibile estrinsecazione del diritto oggettivo).
[48] Nomen iuris che, per ragioni di funzione (e così pure di struttura), non è idoneo ad integrare un’unitaria categoria generale nella quale far confluire i diversi tipi di reclamo; tuttavia, contra, G. Giannozzi, Reclamo (Diritto processuale civile), in Noviss. dig. it., XIV, Torino, 1967, 1064 ss.
[49] Quale Giudice diverso da quello di primo grado (essendo purtroppo fatto notorio che <<il giudice difficilmente è disposto a riconoscere il proprio torto>>: S. Satta e C. Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 457), benché appartenente al medesimo Ufficio giudiziario.
Tuttavia, come supra accennato, può accadere che il Collegio (proprio in quanto organo integrato nello stesso Ufficio del Giudice unico di prima istanza) faccia <<scudo>> (quand’anche involontariamente), per mero spirito di corporativa appartenenza, in favore della decisione emessa dal primo Giudice (qui emergendo quel disvalore talora rinvenibile in quei deprecabili fenomeni di <<solidarietà entroflessa>> orizzontale <<tra uguali>>, cfr. N. Lipari, Riflessioni di un giurista sul rapporto tra mercato e solidarietà, in Rass. dir. civ., 1995, 26 e 27): così è stato all’apparenza (in una pronuncia che non risulta tuttavia utilmente deducibile ad oggetto di commento alcuno per essere destituita del benché minimo rilievo scientifico) per Trib. Firenze 29 settembre 2009, che, pur riconoscendo (stavolta di fronte all’evidenza della produzione di costanti pronunce della Suprema Corte) il periculum erroneamente negato dal Giudice di prime cure ha poi ceduto alla tentazione di concedersi di fatto all’arbitrio (nonostante Cass., Sez. un., n. 3599/1989) nel disconoscere la ricorrenza del requisito con meno spazio concreto di discrezionalità in tema di sequestro giudiziario (a fronte di una lite formalizzata attraverso uno scambio di inequivoche epistole tra contrapposti legali), ossia il fumus boni iuris (originariamente ammesso dal primo giudice nell’interpretazione del reclamante e invece omesso per opinione del resistente). È manifesta (in assenza, tra l’altro, di alcuna condanna dell’istante al risarcimento ex art. 96, cpv., c.p.c.) la piena ed ingiustificata disfunzione strumentale che infirma il citato provvedimento di rigetto in danno della parte reclamante (innanzi ad una specifica pretesa di contitolarità derivante da una complessa e difficile attività ermeneutica avente ad oggetto ben tre schede testamentarie olografe); sul punto basti considerare che <<nella prassi l’accertamento del fumus tende ad essere veramente molto sommario, cedendo il passo, quanto ad importanza, all’indagine sul periculum in mora>> e che <<una volta acclarato il periculum in mora, il giudice civile … negherà il provvedimento richiesto solo se si renda conto che il diritto cautelando prospettato dall’attore è ictu oculi inesistente>>: cfr. Corsini, cit., 281 e nota 78. Pertanto, nel caso da ultimo citato, si rientra in quella nota ipotesi (davvero quasi “di scuola” e paventata dai detrattori dei mezzi di gravame) in cui la sentenza di primo grado riesce a risultare peggiorata in sede di riesame. Così non stupisce leggere che <<L’uomo è nato libero e ovunque è in catene. Chi si crede padrone degli altri è nondimeno più schiavo di loro>>: J.J. Rousseau, Il contratto sociale, Roma-Bari, 1997, 5.
Del resto, citandosi F. Carnelutti (in Trattato del processo civile, 1958, 235), la superiorità del giudice rispetto alle parti <<agevola le tentazioni della superbia, che sono le più tenaci e le più subdole dell’animo umano>>.
[50] Solo in questo modo il giudice del reclamo sarà posto nelle condizioni ideali per formarsi un convincimento derivante da un’indagine approfondita al massimo livello per quanto la sede cautelare consenta, il tutto al fine di garantire realmente, nella costante tensione al raggiungimento del massimo grado di legalità, un processo davvero giusto ed equo (quantomeno se si concorda con la circostanza che questi due ultimi predicati possono ben essere spesi in riferimento ad un complessivo iter procedimentale che tende a far collimare quanto più possibile la verità sostanziale assoluta con quella relativa giudizialmente accertata, quand’anche contestualizzata sin a far tempo dalla più snella <<fase di prevenzione>> – con ciò aderendosi alla caratteristica visione del diritto, per nulla utopica, di foggia romanistica in base alla quale questo è dominato dall’idea di giustizia la quale ultima coincide con la verità del diritto stesso, quale angolo prospettico di un’analisi che conduce dunque a ritenere come falso il diritto ingiusto -): v. P. Perlingieri e G. Romano, Commento alla Costituzione italiana, sub art. 111, Napoli, 2001, 801 nonché Taruffo, ult. op. cit., 21 e Luiso, op. cit., 427. Anche per F. Carnelutti (Istituzioni del processo civile italiano, Roma, II, 1956, 551) il giudice di secondo grado risulta indubbiamente avvantaggiato dal fatto di poter usufruire dell’esperienza del primo giudizio sul quale il medesimo andrà ad esercitare il proprio esame critico che sarà altresì sollecitato pure dalle opposte argomentazioni avanzate dalle parti litiganti; ben potendo anche le parti stesse precisare, modificare e/o rimediare ad errori delle rispettive linee difensive. La naturale tensione verso la giustizia sostanziale della decisione (fine) è aspirazione che si mantiene realisticamente perseguibile anche per il tramite dell’attuazione di una giustizia procedurale (mezzo), con evidente riferimento all’attuale iter che risulta necessario percorrere allo scopo di pervenire all’emissione della relativa pronuncia (tanto di primo quanto, appunto, di secondo grado): parla di <<“buon” procedimento>>, quale <<modello […] ideale […] in cui si massimizzino le garanzie fondamentali e si adottino le tecniche migliori per la preparazione della decisione>> utili ad assicurare la stessa <<correttezza del processo>> M. Taruffo, Idee per una teoria della decisione giusta, in Riv. trim., 1997, 320, 323 e 327. Cfr., ancòra, D. Patterson, Diritto e verità, Milano, 2010; quanto al cd. relativismo processuale il rimando è a P. Calamandrei, Verità e verosimiglianza nel processo civile, in Studi in onore di G. Valeri, I, Milano, 1955, 463 ss.
[51] Diversamente il giudice riuscirebbe così a sottrarsi pure dal motivare circa la ricorrenza o meno del presupposto ignorato, in tal modo vulnerandosi altresì un rilevantissimo <<strumento del controllo popolare diffuso>> (e svolto specialmente dalla dottrina): C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Padova, 2006, 317.
[52] Sulla cui portata ordinamentale, v. C. Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972, 68. Discorre in termini di <<economia logica>> dello stesso ordinamento giuridico: A. Torrente, La donazione, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, Milano, 1956, 217. Per il criterio dell’economia dei mezzi nello svolgimento del potere di autonomia privata cfr., in teoria generale del negozio giuridico, R. Scognamiglio, Contratti in generale, Comm. Scialoja-Branca, artt. 1321-1352, Bologna-Roma, 1970, 59, 60 e 62 (l’a., superando il tradizionale preconcetto per cui le strutture negoziali sono tassativamente fissate dal legislatore, riconosce invece che è la concreta funzione assolta dall’autoregolamento privato a condizionare, di volta in volta, la struttura delle fattispecie – da ciò derivandone la conseguenza della fungibilità tra strutture -).
[53] Rispetto alle quali la necessaria brevità della tempistica e l’urgenza del provvedimento possono sensatamente operare solo in stretta ed esclusiva conformità alla ritenuta prevalenza di uno tra i contrapposti interessi sostanziali di parte dedotti in giudizio e dunque, eminentemente, per l’opposto caso di istanza giudicata nel complesso fondata.
Si consideri, peraltro, che in ispecie, non vertendosi nell’àmbito delle pronunce inaudita altera parte (Trib. Roma, 30/04/1999), l’art. 669-septies, c.p.c. prevede, in applicazione del “giudicato allo stato degli atti” (e dunque sul dedotto ma non anche sul deducibile), che, per il caso di rigetto, la riproposizione della cautela è ammissibile solo se e “quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto” (Trib. Bologna Ord., 15/09/2008; Trib. Torino, 26/04/2004; Trib. Salerno, 02/02/2004; Trib. Napoli, 14/01/2004; Trib. Mantova, 12/07/2002; Trib. Roma, 07/12/2000; Trib. Napoli Sent., 31/05/2000; Trib. Milano, 16/03/1999; Trib. Trani, 14/02/1996; Trib. Verona, 17/07/1995 e Pret. Milano, 10/06/1983). Unico escamotage, per un patrono sensibile al contegno assunto in udienza dal giudice, sarebbe, non appena intuito nel corso del primo grado il verso (a sé sfavorevole) della emananda decisione, rinunciare agli atti prima della pronuncia e riproporre ex novo, immutata nel petitum, la medesima domanda di cautela (Trib. Santa Maria Capua Vetere, 13/10/1997); escamotage, invece, non più adottabile in sede di reclamo, considerate le oramai maturate preclusioni per la relativa (ri)proposizione.
[54] È in questa direzione (che analizza la relazione intercorrente, sul medesimo piano, tra strutture funzionalmente omogenee), più che rispetto ad un successivo giudizio ordinario, che possono meglio cogliere nel segno, nell’andare a bersaglio se ne viene concessa la correzione di tiro, le considerazioni a suo tempo svolte da Proto Pisani (Per l’utilizzazione, op. cit., 8) in riferimento all’àmbito operativo nel cui alveo è <<naturalmente>> ravvisabile l’instaurazione di un qualche rapporto tra tutela cautelare e principio di <<economia dei giudizi>>.
D’altronde l’accertamento in ordine ad una domanda giudiziale dev’essere motivato in relazione alla sussistenza di tutti i relativi requisiti, in modo <<chiaro ed esauriente>>, al fine di persuadere la parte soccombente della correttezza e della giustizia della pronuncia emanata a relativo carico, anche al fine di fondare la responsabilità processuale aggravata di quest’ultimo, in punto di temeritas (ex art. 96, com. 1, c.p.c.), con riferimento ad un’eventuale successiva impugnativa: Cass. n. 1973/1983.
[55] Sul punto v. Mandrioli, cit., IV, 246 e 247 e Consolo-Luiso-Sassani, Comm. alla riforma del processo civ., Milano, 1997, 697.
Il tipo di reclamo in esame ha infatti certamente natura di mezzo di impugnazione (in quanto, a prescindere dall’inidoneità al giudicato del provvedimento in discussione nonché dalla forma concretamente rivestita da quest’ultimo, la decisione di prima istanza è idonea, di per sé sola, ad arrecare immediatamente un pregiudizio alla parte processuale soccombente in via cautelare – laddove il principio generale della tassatività delle impugnazioni non risulta per questo minimamente intaccato in quanto l’art. 323 c.p.c. attiene ai soli gravami avverso le sentenze -: cfr. Mandrioli, op. cit., II, 390, 395 ed in nota 19).
[56] Il Giudice tende a realizzare la giustizia della decisione giudiziaria pure attraverso la <<trasparenza dell’argomentazione giuridica, che ne garantisce la non arbitrarietà>>: Mengoni, Problema, op. cit., 29.
[57] Cfr. P. Perlingieri, Applicazione e controllo nell’interpretazione giuridica, in Riv. dir. civ., 2010, 317 ss.
[58] Secondo il canone fondamentale che attua, a livello di interpretazione costituzionale, il principio di armonizzazione tra valori diversi e tra loro potenzialmente confliggenti deve ritenersi la prevalenza degli artt. 2, 3, 24 e 111 sull’art. 47, com. 1, Cost. Quest’ultima norma, infatti, non può fungere da limite e comprimere le prime quantomeno perché il processo civile (ed i principi generali che in esso possono ritenersi applicabili – cfr. altresì L. 24 marzo 2001, n. 89 -) è, per definizione, servente e strumentale (in punto di <<causa ultima o finalis>>) alla preminente realizzazione del diritto sostanziale per la cui protezione si agisce in giudizio e quindi, nell’àmbito del fenomeno applicativo delle norme sui diritti costituzionalmente riconosciuti, la tecnica del bilanciamento (quale criterio decisorio al quale l’ermeneuta deve ancorarsi) non può che concedere, nel confronto tra le cit. disposizioni, assoluta preferenza alle prime sulla seconda (cfr., da ultimo, E. Del Prato, Ragionevolezza e bilanciamento, in Riv. dir. civ., 2010, I, 23 ss.). La Costituzione, infatti, è <<fondata su una gerarchia di valori>>: P. Perlingieri, Mercato, solidarietà e diritti umani, in Rass. dir. civ., 1995, 103.
[59] V. Gentili, op. cit., 1200 e 1201.
[60] Merita in proposito richiamo preclara dottrina la quale ammonisce (anche in applicazione dell’art. 54, com. 2, Cost.) che <<il giudice deve abituarsi a mostrare maggiore sensibilità nell’instaurare una continua dialettica tra norma ordinaria e norma costituzionale>>, cfr. P. Perlingieri, Il controllo del giudice e il controllo sul giudice, in L’ordinamento vigente e i suoi valori, Napoli, 2006, 203 ss. L’a. ult. cit. (206) richiede al magistrato <<una maggiore capacità inventiva […] se ha consapevolezza del ruolo della sua funzione>>. Di quanto ora esposto si ottiene conferma, all’occorrenza, in U. Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Milano, 1965, 150, quando si propende per <<l’integrazione costituzionalistica del positivismo giuridico>> anche perché <<il livello superiore delle norme costituzionali e le relative cautele e garanzie esprimono […] una loro efficacia per evitare nel sistema trasformazioni subdole e improvvisi colpi di mano dell’ordine legislativo>>.
[61] Mentre nell’opinione della dottrina più risalente (L. Mortara) il doppio grado doveva addirittura reputarsi costituzionalmente illegittimo perché contrario all’esigenza di assicurare una contenuta durata del processo, oggi parte della dommatica assegna rilevanza costituzionale, quand’anche in via mediata, al principio in esame (cfr. Liebman, Il giudizio, op. cit., 407 e I. Nicotera Guerrera, Doppio grado di giudizio, diritti di difesa e principio di certezza, in Riv. trim., 2000, 127 ss.; tuttavia, contra, Ricci, op. cit., 10).
Cfr. altresì, in dottrina, Liebman (op .ult. cit., 402 e 403) che discorre di un secondo grado volto a riparare all’errore giudiziario in vista della produzione di pronunce quanto più possibilmente <<giuste>> e <<vere>>, arg. ex art. 125, cpv., Cost. (letto naturalmente alla luce del principio dell’unicità della giurisdizione sancito dagli artt. 102 e 104 Cost.).
D’altronde, sul piano della semplice ricognizione del diritto vigente (interpretando il dato costituzionale principalmente alla luce del criterio ermeneutico di stampo assiologico-finalistico, pur quando alla luce di un meccanismo positivistico costituzionalmente orientato e, quindi, al di fuori da qualsiasi ipotesi di interpretazione cd. evolutiva), si deve <<progressivamente>> intendere che se il doppio grado di giurisdizione (artt. 125., cpv. e 24, com. 2, Cost.) è espressione del diritto di agire e/o difendersi (art. 24 Carta Fondamentale) <<qualificato>> (sia dalla <<realità>> delle condizioni dell’azione che devono assisterne l’esercizio in impugnazione sia) dalla sede conformante di esercizio e se il riconoscimento del diritto di amministrare giudizialmente le proprie ragioni (in via di azione o di difesa) è in ogni caso espressione di un processo giusto (art. 111 Cost.), allora il doppio grado di giurisdizione è diretta espressione di un processo effettivamente equo: quest’ultimo è dunque un valore intriso, de iure condito, di ogni dignità costituzionale (per la perfetta simmetria tra <<giusto processo>> e <<diritto di azione e di difesa>> v. M. Cappelletti, Processo e ideologie, Bologna, 1969, 121 ss.); si veda, in proposito, P. Perlingieri, <<Salvatore Pugliatti ed il principio della massima attuazione della Costituzione>>, in Rass. dir. civ., 1996, 819, quando l’a. tramanda un messaggio idoneo a lumeggiare l’esistenza di un preciso vincolo in tal senso, valido ed operante tanto per il giudice quanto per l’interprete. Pone l’articolazione del processo per <<gradi>> tra i requisiti (di ordine pubblico) funzionali a garantire la giustizia della decisione M. Ceresa Gastaldo (Appello, in Enc. dir., Annali, III, 2010, 11, 12, 14, 15 e 17-19). Sul punto non v’è chi non avverta che la giustizia di una pronuncia è certamente conseguenza diretta ed immediata (anche) del metodo seguìto in concreto per addivenirvi (in tal modo risultando altresì combinati, in un’armonica visione d’insieme, l’ideologia giusnaturalistica con il metodo positivista moderato – contrario alla <<verità di contenuto>> della norma si dice però N. Irti, Sul problema delle fonti in diritto privato, in Riv. trim., 2001, 698 e 699 -). Cfr. L. Mengoni, L’argomentazione nel diritto costituzionale, in Ermeneutica e dogmatica giuridica, Saggi, Milano, 1996, 120 e ss. È quindi da condividere senza riserve il pensiero che <<il doppio grado di giudizio accresca effettivamente la chance di una sentenza giusta>>: Allorio, op. cit., 322.
Diversa è tuttavia l’opinione, forse ancòra ad oggi prevalente, per la quale la duplicità della cognizione (lungi dal rappresentare un principio costituzionalmente tutelato) si limita a realizzare una mera <<garanzia pratica del miglior risultato delle decisioni>> (v. Consulta, cit., n. 117/1973, nonché cfr. sent. nn. 26/2007, 316/2002, 280/1995, 438/1994 e 62/1981, in palmare adesione al pensiero di E. Redenti, Diritto processuale civile, Milano, II, 1957, 388).
Tuttavia tal’ultima impostazione omette di considerare, tra l’altro, che <<Il fine del diritto non è scienza, sapere, ma è attività pratica, svolgere un’azione utile, risolvere conflitti, secondo giustizia, in modo da attribuire ragione a chi la merita e non a chi vorrebbe imporla>>: limpidi righi, questi ultimi, da tributare all’incisivo pensiero di Schlesinger, op. cit., 2310. Si versa, pare di comprendere, nell’àmbito della teorica (tradizionalmente soggettivistica) in base alla quale la <<funzione>> stessa <<del diritto>> è <<attività pratica>> (poiché il diritto si riduce, in ultima analisi, alla categoria pratica dell’etica o, secondo altri, a quella dell’economia oppure ancòra perché il diritto è funzionale, adesso per l’eclettica tesi carneluttiana, a conformare l’economia all’etica: F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Napoli, 1951, 21); per V. Scialoja <<il diritto non può essere mero complesso di regole astratte, ma deve servire alla vita pratica>> (ID., In difesa di termini giuridici fuori d’uso, in Riv. dir. civ., 1930, 581); si veda peraltro S. Romano, Diritto (funzione del), op. cit., 80 e 84: per tale a. è <<impossibile ridurre il diritto [oggettivo, n.d.a.] ad una qualsiasi forma di attività pratica, risolvendolo interamente in essa>>.
Discorre espressamente in termini di <<principio del doppio grado>> il Chiovenda, op. cit., 982 (è poi evidente che, nel silenzio della legge, deve applicarsi il citato principio); identicamente è per M. Vellani, Appello, in Enc. dir., II, 1958, 719; parla altresì di <<principio>> scientifico e legislativo <<generalmente accolto>>: P. D’Onofrio, Appello, in Noviss. dig. it., I, Torino, 1957, 735. Non deve poi sorprendere che il doppio grado di giurisdizione, quale necessità logica, è idoneo a garantire anche l’interesse pubblico al regolare svolgimento della funzione giurisdizionale nelle rispettive susseguenti fasi evolutive. Nella grigia area teorica del più triste scetticismo lascia invece svaporare il giusto processo in un mero <<stereotipo>> che <<appartiene al folklore delle istituzioni [senza che possa, n.d.a.] interessare il giurista positivo>>: S. Chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost. e il processo civile, in Scritti in memoria di G. Cattaneo, I, Milano, 2002, 373 e 374. Basti qui ora riportare il pensiero di chiara dottrina, indiscutibilmente meritorio, per esprimere senza orpelli, contro un rigido sistema assiomatico <<chiuso>>, quanto in appresso: <<Il primo dei compiti del giurista sta […] in quella ricerca dei principi del diritto naturale che consentono […] l’adeguazione del diritto [n.d.a., recte: della legge scritta] alla giustizia>> poiché diritto positivo e diritto naturale (quand’anche disposti in una relazione da mezzo a fine) risultano <<intimamente compenetrati>> e <<reciprocamente condizionati>> come lo sono tra loro <<anima e corpo>>, infatti <<l’errore non sta nel riconoscere la necessità della scuola pura del diritto ma nell’affermarne la sufficienza>> (cfr. F. Carnelutti, La missione, op. cit., 295, 296 e 300). Tant’è vero che <<il diritto naturale, ossia l’elemento valutativo, non può essere sradicato dal pensiero giuridico perché è una condizione ineliminabile della comprensione della norma da applicare. Esso dev’essere “inseguito e snidato fin nel suo ultimo nascondiglio” non per eliminarlo, ma per portarlo alla luce e costringerlo ad una giustificazione razionale. […] Per conservare il ruolo di mediatore tra il sistema normativo e il conflitto sociale, il giurista deve esplicare con linguaggio comprensibile le valutazioni che hanno guidato la formazione delle premesse della decisione, giustificandole con argomenti aperti alla critica, ossia razionalmente discutibili […] in modo da garantirne l’oggettività e quindi la plausibilità sociale>>: Mengoni, Problema, op. cit., 15-17. Al punto che non può oggi più essere fonte di ragionevole dubbio l’affermazione per cui l’ordinamento giuridico attuale si sorregge pure su un’autentica <<legittimazione metalegislativa>>: L. Mengoni, Ancora sul metodo giuridico, in Riv. trim., 1984, 337.
Il predicato <<giusto>> riveste di necessità una valenza spiccatamente giuridica in quanto esso assume, per definizione, rilevanza esterna quale ed in quanto termine necessariamente di relazione tra due o più distinti referenti, risultando perciò utile a fornire un <<criterio di valutazione delle azioni umane considerate nei rapporti con gli altri uomini>> (non riuscendo indi esso ad esaurire il proprio caratteristico àmbito di operatività nel solo foro interno di un unico soggetto – come invece accade, per esempio, nei differenti ordinamenti occupati dalla religione e dalla morale -): cfr. Raselli, op. cit., 252 e 254. Dalla valenza euristica derivata dal testo e dal contesto in cui il termine <<giusto>> viene di volta in volta positivamente utilizzato dal legislatore se ne ricava poi il concreto ed esatto significato, assistito così quest’ultimo dalla specifica valenza normativa che risulta indi individuata per istituto o materia.
Sembra in verità che il doppio grado, previsto dagli artt. 24, cpv. e 125, com. 2, Cost., integri una clausola generale a rilevanza procedimentale che, cooperando in concomitanza con altri appositi strumenti di tecnica procedurale, concorre ad assicurare la giustizia del processo ex art. 111, com. 1, Cost. (un parallelo interdisciplinare tra realizzazione spontanea e coattiva del diritto potrebbe condurre a ritenere, sebbene a livello meramente figurativo, che la buona fede in executivis ex art. 1375 c.c. sta all’esattezza dell’adempimento ex art. 1218 c.c. come il doppio grado di giudizio ex artt. 24 e 125 Cost. sta alla giustizia del processo ex art. 111 Cost.).
Nello stabilire poi (non tanto come si possa garantire in pratica il rispetto del doppio grado quanto) come si debba evitare che il principio della doppia cognitio risulti in concreto eluso, la base d’indagine dev’essere incentrata sull’istruzione probatoria (tanto è confermato, con pregevole intuizione, dalla recente Cass. civ., 9 giugno 2008, n. 15162 che ricollega il principio di acquisizione, di cui v’è traccia nell’art. 245, cpv., c.p.c. e che opera nel senso di contemperare il principio generale del riparto dell’onere probatorio sancito dall’art. 2697, c.c., al fatto stesso della <<costituzionalizzazione del principio del giusto processo>>). Per principio generale il giudice non è tenuto ad ammettere e assumere in blocco tutte le richieste istruttorie avanzate dalle parti, ma può legittimamente procedere per gradi, aggiustando dunque il tiro di volta in volta a seconda del singolo caso concreto (in corretta attuazione del principio <<economico>> del minimo mezzo): è infatti pienamente lecito che il decidente ammetta solo alcune prove (che reputa più pertinenti, significative e fondanti di altre ai fini della decisione), utilizzando l’istituto processuale della riserva sulle altre istanze istruttorie ed ammettendo queste ultime solo al termine dell’inconferente assunzione delle prime. Né il giudice è obbligato ad istruire la causa su tutti i fatti allegati dalle parti, senza facoltà di compiere precise scelte in proposito e senza poter chiudere l’istruttoria quando reputa la causa matura per la decisione. Il criterio istruttorio vale pure a risolvere il più complesso caso di pluralità alternativa di domande o di eccezioni: il doppio grado di giurisdizione opererà nei limiti di quelle che risultano in concreto poste a fondamento della pronuncia, con vincolo di motivare anche in fatto (ex artt. 111, com. 6 e 24, cpv., Cost.: v. Guerrera, op. cit., 141 ss.) su quelle istruite ma disattese, applicandosi per le sole residue altre (quand’anche meramente ammesse) il principio di economia processuale (ex art. 111, com. 2, 2a parte, Cost.) funzionale perciò, quest’ultimo, a dimensionare, precisandolo (nella minima portata essenziale), il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. D’altra parte, anche in considerazione della riferita struttura trilatera del processo per come utile a mantenere salda, <<in un continuo sforzo di adattamento>> (Roselli, op. cit., 266), ogni <<coerenza interna>> del <<sistema positivo>>, il giudice anche nell’espletamento dell’attività istruttoria (determinativa dell’oggetto su cui cadrà la copertura del doppio grado di giurisdizione) non è un mero accertatore delle istanze di parte né è tenuto ad un esaustivo accertamento della realtà esistente. Si può così affermare rispettato il <<principio che il giudice deve fornire la prova scritta di fedeltà alle leggi>> (cfr. E. Amodio, L’obbligo costituzionale di motivazione e l’istituto della giuria, in Riv. dir. proc., 1970, 448). Alla luce di quanto qui esposto non si giustifica quindi, se la si è rettamente compresa, l’affermazione di Ricci (op. cit., 7) circa la natura casuale dell’applicazione del grado doppio od unico.
Accertate le differenti opzioni ricostruttive riferite all’inizio della presente nota non può ora sottacersi la anomalia di come, vista la mancanza (in sede di premessa) di una qualsivoglia proposta diretta a fornire una definizione stipulativa diffusamente accolta del termine <<giustizia>> e considerata (ora nella dimensione ermeneutica individuale) la precomprensione alla quale purtroppo l’interprete attinge il più delle volte in modo non pienamente consapevole, (quello che appare solo come) il poco precipuamente inteso significato del termine (e, quindi, anche tutta la complessiva reale portata normativa) di <<giusto processo>> diviene fonte qualificativa di concrete modalità di azione tra loro eccessivamente distanti per potersi seriamente credere che la ragione della citata disomogeneità di vedute sia unicamente da rintracciarsi nel condizionamento derivante da una pura e semplice differenza di impostazione culturale (quand’anche <<di categoria>> professionale, benché piaccia poco tracciare nella medesima area del diritto sterili e gretti steccati tra i rispettivi operatori di settore). Ma a tutto, se ci s’ingegna (v. R. Guastini, Interpretare e argomentare, Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, Milano, 2011, 57-59), v’è una spiegazione (v., per le scarse doti di cultura e per lo squilibrio valutativo rinvenibili in un <<giudice politicizzato>>, L. Mengoni, L’argomentazione orientata, op. cit., 456). Risulta infatti singolare notare che il predicato <<giusto>> viene diversamente tirato, <<alla bisogna>>, per gli opposti lembi della relativa giacca da parte della stessa magistratura italiana (per la natura di organo giurisdizionale della Corte costituzionale v. A. Pizzorusso, Uso e abuso del diritto processuale costituzionale, in Diritto giurisprudenziale, a cura di M. Bessone, Torino, 1996, 133 s.) sia in sede processuale (giusto processo) sia in quella negoziale (<<giusto>> contratto), rispettivamente per non diminuire (rinsaldandolo) e per accrescere (estendendolo) il potere depositato nelle mani dei giudici dello Stato (in tal modo detta cerchia di professionisti assume, con una punta di sconveniente opportunismo ed ipocrisia finalizzati all’autoaffermazione, il tipico atteggiamento della <<giurisprudenza dei concetti>>, per un verso, e alternativamente, per altro verso, quello opposto della <<giurisprudenza degli interessi>>): difatti mentre nell’àmbito processuale l’aggettivo <<giusto>> viene inteso restrittivamente con l’espellere dalla relativa area concettuale la regola del doppio grado di giurisdizione (nel malcelato intento di non incrinare l’indipendenza interna dei giudici – ex art. 101, com. 1, Cost. – all’esito di una integrale spiritualizzazione del giudizio di prime cure in quello di seconde – laddove un pieno controllo sul giudice di primo grado si ritiene invece assolutamente necessario proprio per scongiurare l’attribuzione al medesimo di un potere, di fatto, assoluto e quindi finanche sconfinante nel puro arbitrio -), nell’àmbito dell’autonomia privata (v., su tutte, Cass. 24 settembre 1999, n. 10511) lo stesso aggettivo (mutuato qui ora però, si direbbe, dall’ordinamento teleologico-canonistico e comunque non certo dall’art. 36, com. 1 Cost. per essere quest’ultima una disposizione dettata in vista delle superiori finalità primarie del rispetto dei valori racchiusi nella persona umana nonché dell’ordine e della pace sociale), applicato al piano regolamentare del contratto che dovrebbe invece conservarsi come <<riservato>> ai soli paciscenti (arg. ex art. 1372 c.c.), viene invece sovradimensionato (derivandone l’attribuzione in favore del giudice di un potere di intervento d’ufficio che si risolve, deterministicamente, in una sorta di generalizzato ius corrigendi in funzione di riequilibrio del rapporto negoziale sinallagmatico) con il risultato (salutato con favore da parte di quella stessa dottrina italiana, autorevole, che celebra l’epitaffio del negozio giuridico: F. Galgano, Il negozio giuridico, Tratt. dir. civ. comm. Cicu e Messineo, Milano, 1988, 15 e 16) di annullare ogni connotato volontaristico (limitatamente alla fattispecie contrattuale strutturalmente realizzata per il tramite della modalità formativa rappresentata dall’in idem placitum consensus) per il fatto di considerare rilevante il contratto esclusivamente per la sua funzione oggettiva di scambio (non solo economico ma financo) giuridico (invertendosi così l’ordine istituzionale delle implicate posizioni: si trasporta in primo piano la figura del Giudice qualificata da indebiti profili paternalistici, lasciando invece sullo sfondo il vero Signore protagonista della vicenda internegoziale – ossia il privato, considerato invece come soggetto del tutto <<amens>>, pare registrarsi, da un numero non sparuto di operatori -). In verità si ritiene che la pretesa applicazione in materia contrattuale del termine <<giusto>> non può affatto essere rivolta a coniare il sinonimo di una presunta necessaria equivalenza oggettiva di valori tra prestazione e controprestazione (come invece vorrebbe R. Lanzillo, Regole del mercato e congruità dello scambio contrattuale, in Contr. impr., 1985, 309 ss.), ma tenderebbe, al più, a garantire la realizzazione del principio del c.d. <<voluto-utile>> (sorta di uguaglianza soggettiva o relativa): sul punto (oltre alle norme codicistiche sulla rescissione, sulla impossibilità sopravvenuta della prestazione, sul patto leonino e sulla disciplina degli atti posti in essere da parte di soggetto incapace naturale) si rinvia al pregevole contributo di A. Cataudella, La giustizia del contratto, in Studi in onore di D. Messinetti, Napoli, 2008, 259 ss, passim nonché a G. Biscontini, Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti. Il problema della donazione mista, Napoli, 1984, 47 ss. e (con riferimento alla natura eccezionale dell’intervento del giudice <<nel>> contratto) v. G. De Nova, Il contratto ha forza di legge, in Scritti in onore di R. Sacco, II, Milano, 1994, 328 ss. (arg. ex art. 1372 c.c.) inoltre, sul tema, cfr. P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in Giur. it., 1999, 229 e ss. Si registra altresì una teorica mediana (che si assesta in una zona di confine tra il valore liberale racchiuso nel principio del <<voluto-utile>> e l’opposta formalistica veduta egalitaria del <<giusto>> contratto), autorevolmente sostenuta (cfr. P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. dir. civ., 2001, 334 ss.), che (senza tuttavia riuscire a sfuggire alla censura di aprire così un varco all’assolutismo o, quantomeno, ad un autoritaristico giustizialismo statale) intende il rapporto contrattuale come necessariamente <<proporzionato>> (sia quantitativamente – ex artt. 53, 38 e 97 Cost. – sia, nel caso in cui siano messi in relazione elementi tra loro disomogenei, qualitativamente – ex artt. 2 e 36 Cost. -): la <<giustizia>> del contratto si raggiunge quando quest’ultimo riesce a far convivere, composti in un equilibrio di sintesi, i valori di libertà e solidarietà [arg. dal principio generale di proporzionalità racchiuso nell’art. 1384 c.c. ed attuativo dell’ordine pubblico economico in quanto diretto a consentire un controllo su tutti gli atti di autonomia negoziale, ritenendosi non esclusa persino la fattispecie di cui all’art. 1333 c.c. (nonostante parrebbe mancare un termine giuridico di relazione esterno rispetto alla posizione del disponente – ma v. art. 1468, c.c. e Trib. Milano Sez. XIII, 8 aprile 2011 -), al fine di evitare che si verifichi una <<sproporzione macroscopica e ingiustificata>> tra le situazioni economiche di riferimento: il potere ‘officioso’ del giudice di ridurre la penale manifestamente eccessiva si giustifica, in tale prospettiva, in quanto il principio di proporzionalità ha natura imperativa (da ciò quest’ultimo, ricevendo specificazione all’art. 1941 c.c. pure in materia di garanzie personali, è applicabile non solo alle garanzie reali ma anche a quelle autonome <<a prima richiesta e senza eccezioni>> in quanto, la ratio della norma in esame, prescinderebbe del tutto dalla relazione di accessorietà intercorrente tra rapporto principale e rapporto di garanzia. Conformi v. anche Cass. 6 ottobre 1989 n. 4006, in BBTC, 1990, III, 5 ss. e Trib. Milano 22.9.1986, in Rass. dir. civ., 1992, 608 ss.; contra, invece, G.B. Portale, Fideiussione e Garantievertrag, Le garanzie bancarie internazionali, Milano, 1989, 3 ss.). Per la ricorrenza del criterio della proporzionalità anche in talune disposizioni testamentarie (in ispecie, nel legato poene nominae relictum): G. Bonilini, Autonomia testamentaria e legato, Milano, 1990, 164. Sulla stessa linea di pensiero, ora in tema di <<torto>>, cfr. S. Rodotà, Il Problema della responsabilità civile, Milano, 1967, pagg. 102, 104, 106, 107, 93 (dove è dato leggere che <<il diritto soggettivo arriva fin dove comincia la sfera d’azione della solidarietà>>).
[62] Sul punto cfr. Mandrioli, op. cit., II, 471, nota 103, e 472.
È stata di recente affermata, proprio in tema di rimedi e di “flessibilità” del relativo sistema, l’esigenza di realizzare il ‘giusto processo’ funzionale all’attuazione del principio di effettività enunciato dall’art. 24, Cost.: P. Perlingieri, Il <<giusto rimedio>> nel diritto civile, Il giusto Processo civile, Napoli, I, 1-11, 2011; l’autore mirabilmente sottolinea “l’esigenza di estendere l’àmbito di operatività di ogni strumento rimediale oltre i confini predeterminati dal legislatore” per “la necessità di conformare le disposizioni processuali alla miglior realizzazione possibile del diritto di difesa (art. 24, Cost.) e al giusto processo (art. 111, spec. comma 8, Cost.)”.
D’altronde l’art. 669-terdecies, com. 4., u.p., c.p.c. nel recitare che <<Non è consentita la rimessione al primo giudice>> opera, ma va da sè, nei soli casi in cui non sia ravvisabile la violazione di valori costituzionalmente tutelati. Si pensi, per es., alle gravi conseguenze che potrebbero in ipotesi derivare, sul piano materiale, a carico di un cittadino che, agendo in giudizio (eventualmente nell’alveo di una difficile vicenda di diritto sostanziale), si sente negata la garanzia del doppio grado poiché obliterata dal giudice di prima istanza che non ha esaminato nel merito la domanda sostenendo, erroneamente, la ricorrenza di un qualche impedimento processuale. Possono altresì configurarsi ulteriori ipotesi di strumentalizzazione del processo nell’alveo delle quali uno dei litiganti ordisca espedienti procedurali al fine di allocare il peso del maggior rischio processuale (tale in quanto relativo, in pratica, ad un unico grado) a carico della controparte (in considerazione vieppiù del fatto che l’interesse ad impugnare non trae giuridica giustificazione dalla sola statuizione di soccombenza formale: v. Mandrioli, op. cit., II, 396 in nota n. 21).
Non intendendosi con ciò assegnare al reclamo natura istituzionale di gravame rescindente (v. Trib. Trani 2 marzo 1999, Trib. Bologna 30 luglio 1998 e Trib. Lecce 26 aprile 1994). Tuttavia, per tal’ultima natura (seguita o meno da una fase rescissoria), cfr.: Trib. Roma 7 luglio 2000, Trib. Modena 2 luglio 1999, Trib. Napoli 30 aprile 1997, Trib. Catania 23 marzo 1995, Trib. Bologna 11 ottobre 1994 nonché Trib. Torino 3 dicembre 1993 e 8 giugno 1993.
In realtà si propende, anche solo per ragioni di celerità nel portare a compimento il giudizio cautelare, per il naturale carattere sostitutivo del gravame in oggetto (così anche Corsini, op. cit., 123 ss.): il giudice cautelare deve indi ritenersi dotato dei medesimi poteri del giudice di prima istanza. L’effetto <<reale>> sostitutivo opera effettivamente nei limiti della sola impugnazione laddove, per il resto, il collegio si limita a ripetere quando statuito dal giudice di prime cure (così risultando modificata, sotto quest’ultimo aspetto, unicamente la fonte del provvedimento di primo grado che resta indi pro parte immutato nella sostanza).
[63] P. Calamandrei evoca, in proposito, l’idea di <<una specie di caso fortuito irrimediabile>>, in La Cassazione civile, I, Storia e legislazioni, Roma, 1920, 29.
[64] Ritenendosi ipoteticamente accettabile, quale <<minore dei mali>>, una tacita prassi di estendere l’indagine alle pronunce ‘meramente’ di merito per il sol caso di mancanza di (alcun indirizzo oggettivamente prevalente nei) risultati ottenuti dalla verifica compiuta in sede di legittimità.
[65] Il carattere non vincolante del precedente giudiziale, come invece è all’opposto nei Paesi di common law, non autorizza certo questo contegno ammorbato da indegne note di negligenza.
[66] Senza che, con ciò, all’idea gius-realistica per cui la scienza giuridica tende essenzialmente alla previsione delle decisioni future s’intenda attribuire alcuna screditante portata <<profetica>>.
[67] Interessa direttamente quest’ultimo aspetto quell’opinione dottrinale che, quanto alla problematica del rapporto tra potere decisorio e contraddittorio, ritiene rientrante tra gli insindacabili poteri del Giudice, nel rispetto dei <<petita partium>>, quello di porre a fondamento della decisione una autonoma interpretazione di un contratto – acquisito al processo in qualità di fatto ‘principale’ – benché non prospettata da alcuna delle parti o, addirittura, contraria al loro comune intendimento: P. Schlesinger, Interpretazione del contratto e principio dispositivo, in Temi, 1963, 1135, 1141 e 1142 (cfr. Cass. n. 89/1955).
Tuttavia, si ritiene, il Giudice non può affatto prodursi in detta <<originale>> attività ermeneutica e certamente non può farlo per la prima volta in sede di decisione. Ciò in quanto: i) si deve evitare alle parti di essere investite (come troppo spesso oggi accade nelle aule di Giustizia) dallo sgradevolissimo fumus che il Giudice (ripugna qui anche solo porvi mente) si sia avvicinato agli atti di causa unicamente nella fase della decisione (d’altro canto il processo non si svolge innanzi ad un giudicante istituzionalmente tenuto al <<mutismo>> sui fatti di causa ma, anzi, il giudizio stesso necessita all’uopo di svolgersi anche attraverso la strumentale adozione in udienza di una fattiva interazione orale tra Giudice e parti); ii) tale sentenza <<ad irrimediabile base innovativa>> frustrerebbe alla radice, ancòra una volta, il doppio grado di giurisdizione giacché le parti non potrebbero liberamente scegliere (al fine di ottenere una pronuncia che si incentri sulle prospettate contrapposte posizioni) di riproporre la stessa causa in un nuovo primo grado (dato il rischio di provocare l’effetto processuale del bis in idem – non essendo di regola prospettabile l’esperibilità dello strumento revocatorio di cui all’art. 395 c.p.c. -) ma sarebbero costrette ad appellare la sentenza, confrontandosi così per la prima volta, in sede di seconde cure, rispetto ad una particolare angolatura della vicenda mai trattata né giammai considerata in primo grado. Opera chiaramente in tal senso la novella dell’art. 101, cod. di rito civ., operata dalla L. n. 69 del 18.06.2009.
Pertanto si lascia preferire l’opposta opinione espressa da F. Carresi, Interpretazione del contratto e principio dispositivo, in Riv. dir. civ., 1988, 650 (cfr. altresì, conf., la remota Cass. 8 aprile 1944, n. 228 – pronuncia peraltro riportata dallo Schlesinger, o.l.c., 1140, in nota 18 – nonché v. L. Ferri, Errore ostativo e interpretazione del contratto, in Riv. trim., 1958, 1505). Autorevole dottrina, in quanto possa occorrere la seguente argomentazione a maggiore sostegno della posizione qui accolta, rimarca che è “doveroso realizzare una sostanziale collaborazione tra giudice e parti” ravvisandosi un “obbligo, a carico dell’organo giudicante, di sollevare il contraddittorio delle parti su tutte le possibili questioni rilevate d’ufficio” nell’ottica di una “progressiva trasformazione del processo civile in punto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato”: Perlingieri, Il <<giusto rimedio>>, op. cit., 15 alla nota 39 e 18; nello stesso senso si trova affermato, rispetto al rapporto che deve intercorrere tra la discrezionalità del giudice e il principio di parità delle parti, che “La terzierà del giudice […] non si risolve interamente nell’imparzialità del giudicante, ma anche e innanzitutto in una posizione strutturale del giudice rispetto alle parti […] imposta dal principio di uguaglianza”: Lanfranchi, op. cit., 10.
In verità, in un caso come quello ipotizzato, buon senso e ‘correttezza’ (art. 2, Cost.) impongono di concludere che il Giudice sia tenuto quantomeno a invitare le parti a prendere espressa posizione sulla possibile diversa interpretazione del contratto che il solo giudicante ha in mente (senza che ciò integri alcuna illegittima <<anticipazione>> della decisione) al fine di evitare quanto più possibile che la sentenza produca un pernicioso <<effetto sorpresa>> per i litiganti, così consentendosi alle parti di far emergere eventuali errori ermeneutici insiti nella linea prospettata da colui che dovrà poi decidere le sorti degli altrui patrimoni.
Facendone derivare diverse conseguenze, distingue tra questioni, di diritto o di fatto, sottaciute alle parti dal giudicante: Cass. civ. Sez. Unite, 30/09/2009, n. 20935.
[68] Merita di essere riportato il passo di L. MENGONI (ID., Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Diritto e valori, Bologna, 1985, 53): <<Una delle ragioni essenziali della regola di diritto, posta nella forma della legge generale, è la razionalizzazione dell’amministrazione della giustizia, che viene vincolata a criteri di valutazione tipici, conoscibili in anticipo da parte dei consociati, in guisa da attuare il principio dell’uguaglianza di trattamento di casi oggettivamente uguali e, con esso, l’esigenza di certezza dell’applicazione del diritto o almeno, in una società complessa e in costante movimento come la nostra, di un grado tollerabile di incertezza>>.
[69] D’obbligo il rimando a S. Romano, Diritto, op. cit., 81.
Il diffuso clima di diffidenza, quale quello che attualmente si respira verso ogni figura istituzionale del Paese, dovrebbe far deporre per l’abbandono dell’invisa prassi giudiziale in parola in quanto idonea, in potenza, a consentire la conservazione, all’interno della stessa magistratura, di <<sacche di arbitrio>> quantomeno sconvenienti (in quanto l’uso si presta, talora, ad essere distratto in funzione di copertura intesa a simulare la mera apparenza di una non arbitrarietà).
[70] Dunque da ritenersi, in ultima analisi, giuridicamente immeritevoli di protezione (v. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, I, 2006, 110 e 111) perché invalidi sia sotto il profilo formale sia sotto quello materiale (cfr., ora in materia di filosofia del diritto, N. Bobbio, Sul ragionamento dei giuristi, in Riv. dir. civ., 1955, 6 e 7), risultando apertamente (irragionevole poiché) contrari alla stessa fitta ma lineare trama intessuta dai valori nonché dai principi di ordine pubblico costituzionale. Si noti che <<[…] la gerarchia dei valori, in base alla quale esprimere il giudizio di meritevolezza, è prestabilita nelle fonti normative gerarchicamente superiori>>: P. Perlingieri, Nuovi, op. cit., 557.
[71] Si pensi per esempio all’ipotesi, non certo peregrina o di fantasia, in cui il Collegio rigetti il reclamo mosso dal prevalente fine di scoraggiare il soggetto istante alla proposizione della lite in sede ordinaria di cognizione, per es. nel dissimulato intento di contribuire così ad alleggerire, anche in tal modo, il carico di controversie che sempre più affliggono le aule di giustizia.
Risulta unicamente di appannaggio delle parti litiganti la prerogativa di piegare legittimamente, sin dalla prima istanza, lo strumento cautelare contenzioso allo <<scopo pratico>> di guadagnare sull’altra un <<potere contrattuale>> maggiore nel senso di crearsi un più ampio margine di probabilità di addivenire ad una transazione o ad una conciliazione. Ecco quindi lumeggiarsi un ulteriore profilo di rilevanza, utile a confermare l’importanza che il provvedimento di primo grado risulti completo, sotto ogni profilo, allo scopo di mostrare quanto più chiaramente possibile ai contendenti il grado di relativa fondatezza. Il che è a dire che la succitata scelta deflativa non può essere attuata direttamente dal Tribunale ma deve provenire dalle stesse parti, indotte a rimettere le armi a fronte di un giudice dimostratosi forte e competente, anche nell’applicazione dell’art. 96, cpv., c.p.c. Sotto quest’ultimo aspetto, inoltre, non si manca di evidenziare che l’art. 96 cod. di rito civ. è stata sinora (ma v. Trib. Milano 21 novembre 2006 n. 12694), in fatto, norma praticamente disapplicata dai Giudici chiamati invece di recente a rivitalizzarla (essa, ad oggi, fà quindi parte del diritto positivo solo sotto il profilo meramente formale): da ciò emerge non tanto una irragionevole <<desuetudine>> (giuridicamente inefficace perché inidonea a sovvertire il principio di divisione dei poteri sancito a livello costituzionale e perché sfornita di qualsiasi capacità abrogativa rispetto alla legge scritta) quanto, più propriamente, uno <<sclerotizzato>> disuso del tutto discutibile; tuttavia, per l’avvenire, merita ogni attenzione il dato che il Legislatore, con un recentissimo intervento normativo (cfr. L. n. 69/2009), ha invece dimostrato apertamente di non considerare affatto tale disposizione come sostanzialmente <<fuori dal sistema>>, incentivandone invece il relativo rifiorimento nella stessa naturale dimensione giudiziale.
[72] Riferimenti in Taruffo (Senso, op. cit., 680 nota 48) sul sentore della decisione come <<atto di violenza istituzionale invece che come atto di giustizia>>.
[73] Soprattutto negli ordinamenti moderni, proprio in quanto eccessivamente complessi, è meglio appercettibile <<il bisogno che le controversie vengano risolte dai giudici in modo giusto. Peraltro questo bisogno […] pare orientato nel senso della giustizia […] della decisione giudiziaria vista come accettabilità di essa nel contesto giuridico e sociale>>: Taruffo, Legalità, op. cit., 20.
[74] Fatta salva la liceità della condotta in auto-protezione qualora contenuta nei mutevoli limiti della cd. legittima difesa di cui agli artt. 2044 c.c. e 52 c.p. (tale disposizione, consegnata a due norme formalmente distinte nell’alveo rispettivamente del diritto privato e di quello pubblico, dispiega il brocardo consistente nel cd. vim vi repellere licet quale regola comportamentale che s’incentra sul criterio selettivo dell’interesse prevalente, da applicare nel caso in cui la reazione all’altrui offesa risulti proporzionata nonché in continenti – pena configurabilità di un illecito eccesso imputabile -). Tale ipotesi integra, nella dimensione penalistica, una c.d. causa oggettiva di esclusione del reato, con l’effetto di rendere lecito il fatto ab origine (cd. scriminante o causa di giustificazione); anche sul piano civilistico il terzo produce una lesione contra ius ma iure: la scriminante de qua esclude l’antigiuridicità oggettiva del contegno e, dunque, non consente il sorgere di alcun profilo di responsabilità civile ai fini della risarcibilità di un ipotetico danno – salva l’applicazione analogica dell’art. 2045 c.c. tesa al riconoscimento, in favore del danneggiato, di un indennizzo avente natura equitativa: v. Cass. nn. 4029/1995 e 8772/1991 -).
In tema di autodifesa v. B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1972, 81 e A. Burdese, Diritto privato romano, Torino, 1998, 73 e 74 nonché cfr. G. Scherillo e F. Gnoli, Diritto romano, Lezioni istituzionali, Milano, 2005, 262; v. altresì C. Sanfilippo, Istituzioni di diritto romano, Soveria Mannelli, 2002, 116 e A. Guarino, Diritto privato romano, Napoli, 2001, 71.
Il divieto di autotutela (e quindi il principio di etero-tutela giurisdizionale) sancito storicamente per la prima volta in generale (poiché esteso anche al diritto dominicale) dalla compilazione giustinianea trova la propria matrice in un precedente emesso nel sec. II d.C., nell’area delle obbligazioni, dall’Imperatore Marco Aurelio (cd. decretum divi Marci) il quale ultimo ha negato tutela giudiziaria ad un creditore (sanzionato con la perdita del credito) che, a fronte dell’inadempimento dell’obligatus, si era direttamente soddisfatto sui beni del debitore medesimo.
Nel vigente codice civile, con riferimento ai rapporti di natura patrimoniale, all’art. 1174 è sottesa la ratio di garantire la <<pacifica convivenza dei consociati>> (cfr. M. Giorgianni, L’obbligazione, Milano, 1968, 34).
Per la distinzione tra autotutela <<preventiva>> e <<reattiva>>, cfr. F. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, Milano, 1992, 400.
Si parla invece solo impropriamente di autodifesa <<consensuale>> o <<volontaria>> (per distinguerla da quella propriamente unilaterale e, di regola, violenta), con ciò intendendosi semplicemente indicare i diversi possibili tipi di accordi tra i soggetti titolari degli interessi in conflitto.
In generale v. C.M. Bianca, Autotutela, in Enc. dir., Agg. IV, Milano, 2000, 129 ss.
[75] V. N. Bobbio, Diritto e forza, in Riv. dir. civ., 1966, 538.
[76] Cfr. S. Chiarloni, Diritto dei privati e giustizia stragiudiziale, in Diritto giurisprudenziale, a cura di M. Bessone, Torino, 1996, 325 ss.
[77] Arg. a contrario da Mengoni, Problema, op. cit., in Jus, 29.
[78] In verità il clamore osteggiato da OBERTO (ID., La comunione, op. cit., XI) altro non è che lo specchio del <<crescente degrado>> in cui generalmente versa la Giustizia, oramai percepito, anche da parte del quisque de populo, come non più ulteriormente tollerabile. In realtà spesse volte, senza che meritino considerazione di sorta le denunce che sottendono l’animus di imbavagliare o screditare la <<voce del popolo>>, la doglianza, specialmente quando espressa con toni aspri ed esasperati, rappresenta l’unico strumento di cui il cittadino dispone per lenire il senso di impotenza che, insopportabile, si avverte di fronte all’irresponsabilità sostanziale di cui fruiscono coloro che sono chiamati ad attuare la Giustizia (cfr. L. 13 aprile 1988, n. 117 e D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109). Tale diffuso malcontento rappresenta, or dunque, un innegabile indice di allarme sociale (vox populi, vox Dei) che tradisce, mettendola a nudo, la crisi profonda che attualmente attraversa l’Istituzione giudiziaria, più che nel sistema che la connota (v., da ultimo, il sintomatico e claudicante D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28), nelle persone che dovrebbero dimostrarsi capaci di gestirla rettamente (conformemente v. Rodotà, Elogio, cit., 21).
All’opposto deve invece dirsi per la figura istituzionale del Notaio: la giurisprudenza tende, a fronte di uno ius positum ampiamente lacunoso riguardo agli obblighi di tutela che incombono sul P.U. nei confronti delle parti contraenti (cfr. i soli artt. 47 e 28, L. 16 febbraio 1913, n. 89), ad ampliare, con impeto sempre maggiore e in violazione del sovrano principio di certezza del diritto, <<eccessivamente ed ingiustificatamente la sfera istituzionale della doverosa assistenza notarile>>. La prestazione che si pretende resa dal P.U. prescinde dalla considerazione del concreto contenuto del mandato professionale conferito, esige da parte del Notaio una <<assistenza attiva illimitata>> e così attribuisce ai privati <<il diritto di conseguire dal negozio stesso tutto ciò che l’ordinamento può concedere, anche se da essi ignorato e non richiesto>> (cfr. le acute osservazioni di g. girino, Le funzioni del notaio, in Riv. not., 1983, 1070 e 1071).
[79] Con il rifarsi allo schema approntato dal folgenorientierte Argumentation, e cioè dal metodo argomentativo pragmatico capace di dirimere opposte interpretazioni normative (dovendosi tra esse preferire, per congruenza di sistema, quella <<più equa, più socialmente utile, meno dannosa, ecc.>>) pur quando afferenti il piano dei valori costituzionali (cfr. Mengoni, L’argomentazione orientata, op. cit., 450-452 e 459).
[80] Il che a significare che il Giudice (appunto, assieme ad ogni altro operatore giuridico, quale entità organica <<a servizio>> del <<bene del popolo>> di cui egli stesso è parte) non è uno ‘Sceriffo’ (nel senso che non è Lui la Legge) e non risulta indi legittimato a creare con la penna alcun tipo di <<far west>>.
[81] Nel mondo del diritto l’effetto <<naturale>> della globalizzazione è rappresentato dalla compenetrazione nei diversi tessuti ordinamentali di modelli giuridici storicamente e culturalmente estranei al sistema che li riceve.
Gli effetti <<mediati>> (recte: collaterali) che dalla globalizzazione si rifrangono nella dimensione della prassi giudiziaria (v. Chiarloni, Il nuovo, op. cit., 374 e 375) sono all’opposto, quasi paradossalmente, quelli della caotica parcellizzazione di quest’ultima, a tutto nocumento della certezza del diritto (creandosi così nei consociati l’idea di vivere non sub lege ma sub homine), invece che consentire, all’opposto, un’armoniosa <<universalizzazione>> degli usi processuali poiché consapevolmente fondata su un meditato ragionamento condotto, in sede applicativa, secondo diritto in debita attuazione dei fondamentali <<principi di uguaglianza e razionalità dell’amministrazione della giustizia>> (cfr. Taruffo, op. ult .cit., 22).
[82] Per i profondi mutamenti della <<condizione umana>> intervenuti sin a far data dal secondo dopoguerra: cfr. L. Mengoni, Diritto e tecnica, in Riv. trim., 2001, 6.
Per il carattere <<finanziario>> del sistema moderno rispetto a quello industriale: v. F. Galgano, Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, in Contr. impr., 2000, 196.
Sul fatto che la globalizzazione economica abbia già prodotto conseguenze giuridiche anche nel senso di ampliare notevolmente la <<discrezionalità>> del giudice si è pronunciato, in dottrina, Taruffo, op. ult. cit., 17; per il rapporto tra la globalizzazione e il complesso fenomeno giuridico, v. La Porta, Globalizzazione, op. cit., passim.
[83] Anche in funzione di consentire il reciproco controllo di un comune, integrato, piano argomentativo (v. Mengoni, L’argomentazione orientata, op. cit., 466).
Senza perciò richiedere di contro ai Giudici quei controproducenti e <<ingolfanti>> <<eccessi di dottrina>> già denunciati da G.S. Coco, Sul formalismo e la cultura dei giudici, in Riv. dir. civ., 1971, 98 ss.
La ponderata sintesi dialettica tra pensiero ed azione viene identificata (da B. Croce, La storia come pensiero e azione, Bari, 1938, 27) con la storia e, quindi, con la cultura stessa (cfr., altresì, A. Falzea, Sistema culturale e sistema giuridico, in Riv. dir. civ., 1988, 17).
Denuncia la <<sempre più evidenziata>> frattura <<tra scienza e pratica>> nei <<diritti continentali>> e, quindi anche, la conseguente (urgente) necessità di ricomporla: C.M. Bianca, Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto positivo: un problema di metodo della dottrina privatistica, in Scritti giuridici, I, Milano, 2002, 38 e 39.
[84] L’effetto collaterale della globalizzazione si riverbera nella dimensione giudiziaria emergendo sotto la luce della generalizzata carenza di valore dei provvedimenti giudiziali derivante dalla incontrollata, atomistica, parcellizzazione dell’errore di decisione: la (inconsapevole) tendenza è quella di globalizzare la carenza o, comunque, la non scientificità del metodo che <<trascina>> il giudice, attraverso un processo mentale bizzarro e irrazionale, verso la decisione – di qualunque segno essa sia – sulla quale basare la pronuncia.
Si ponga mente al seguente, emblematico, esempio: nell’àmbito di una procedura introdotta a titolo di responsabilità civile innanzi al Trib. di S.M. Capua Vetere, la difesa di parte convenuta, all’esito di un’interruzione del processo per certificata morte della stessa patrocinata, eccepiva l’intervenuta estinzione del processo ai sensi dell’art. 305 c.p.c. in quanto l’attore in riassunzione sceglieva insipientemente di chiamare in causa i presunti eredi (tali meramente allegati nella detta veste successoria) non avvalendosi del beneficio (in punto di astrazione processuale) eccezionalmente concesso dall’art. 303, cpv., c.p.c. (e quindi evocandoli individualmente a norma del com. 1°) ma senza supportare la relativa vocatio della prova circa la sussistenza, negli stessi chiamati, della qualità di eredi accettanti (cfr. C. Conti Lazio 20 marzo 1998, n. 113). Il Giudice, Dott. Catello Marano, ha quindi sciolto la riserva emettendo un provvedimento (ordinanza del 13 settembre 2010) in cui si rigettava l’eccezione in rito di parte convenuta in quanto <<risultano ritualmente individuati i soggetti nei confronti dei quali il giudizio deve essere riassunto, nelle persone dei presunti chiamati alla successione legittima della parte deceduta, dovendosi ritenere che è onere del soggetto nei cui confronti è stata chiesta la riassunzione provare di non essere erede della parte defunta, ovvero provare che esistono altri eredi nei cui confronti il giudizio deve essere riassunto>>, citando, a sostegno, le massime emesse da Cass. nn. 2291/1996 e 2331/1984. Ora buon senso impone che in giudizio l’attenzione del giudicante debba essere tale, nel minimo, da scongiurare primariamente un errore capace di rendere la stessa realtà più immaginifica della fantasia. Peraltro le surriferite sentenze, citate dall’organo decidente a totale sproposito, risultano essere state intimamente stravolte e violentate nella nobile essenza che ne ha invece ispirato la fonte e che, tuttora, ne anima la funzione: i) la prima attiene infatti al caso di un convenuto che, espressamente costituitosi nella qualità di erede (ex art. 475, com. 1, c.c.), risulta ovviamente onerato di dimostrare l’esistenza di altri coeredi che egli allega esistenti al fine di distribuire il peso economico del debito ereditario che altrimenti la sentenza porrebbe a suo esclusivo carico (non per nulla la stessa massima statuisce a chiare lettere che il convenuto <<costituendosi quale erede della parte defunta, ha autodeterminato la propria legittimazione passiva>>); ii) la seconda riguarda l’inconferente ipotesi di validità ed efficacia della notifica in riassunzione per il caso in cui il vocato alleghi di aver rinunciato all’eredità prima di ricevere al proprio indirizzo l’atto di citazione: è qui ovvio che, avendo il convenuto introdotto in giudizio un fatto impeditivo nuovo, si è determinato il carico del relativo peso probatorio, a norma dell’art. 2697, cpv., c.c., in testa alla parte che ha affermato a propria difesa il fatto <<sopravvenuto>> (rendendo in tal modo implicitamente non contestata la presupposta assunzione della qualità ereditaria). In sostanza il provvedimento qui esaminato ha irrazionalmente violato l’essenziale principio distributivo di giustizia formale, nel sottrarre l’attore al vincolo della norma generale ed astratta applicabile a relativo carico e, correlativamente, ha impartito al convenuto un trattamento non predeterminabile rispetto ai criteri oggettivi di giudizio forniti dagli artt. 303, com. 2, 305, 307 c.p.c. e 2697, com. 1, c.c. (v. A. Ross, Diritto e giustizia, Torino, 2001). In tal modo indi abdicando il giudicante, del tutto arbitrariamente poiché all’esito di un’azione decisoria del tutto staccata ed avulsa dalla vigente normativa, dal garantire il rispetto della primaria esigenza ordinamentale di uguaglianza come tale (art. 3 Cost.).
[85] Anche in ossequio al principio di “ragionevole durata” del processo (ex art. 111, co. 2, 2a parte, Cost.) la cui osservanza è strettamente necessaria a garantire la stessa effettività della tutela giurisdizionale dei diritti (C.Cost., 22.10.1999, n. 388). Cfr. altresì, in materia di ‘equo processo’, l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia della tutela dei diritti dell’uomo (firmata a Roma il 4.11.1950 e coordinata con l’emendamento di cui al prot. n. 11 firmato a Strasburgo l’11.05.1994 e vigente dal 1.11.1998).
[86] Correva l’anno 1950 quando S. Pugliatti, severo, avvisava come <<Purtroppo magistrati […], che hanno perduto la consuetudine (se mai l’ebbero) della meditazione, non mancano, e forse sono più numerosi di quanto si possa pensare. Costoro, soffocati dalla mole del lavoro o corrosi dalla pigrizia, scoraggiati dalla sfiducia e dalla miseria, o ridotti all’impotenza per mancanza di attitudini o di preparazione, hanno trovato la facile formula che calma tutte le loro preoccupazioni: la “pratica” non ha nulla a che vedere con la “teoria”>> (cfr. ID., La giurisprudenza come scienza pratica, in Grammatica e diritto, 1978, 121).
[87] Si ponga mente a come la funzione giurisdizionale viene esercitata, per il tramite del criterio d’imputazione formale rappresentato dalla cd. contemplatio dLS����